Nel caso di esternalizzazione del servizio di asilo nido comunale, quale trattamento economico accessorio è dovuto alle educatrici che abbiano chiesto la ricollocazione all’interno dell’ente con mansioni amministrative, equivalenti a quelle precedentemente svolte, a seguito di un programma di formazione?

Così risponde l’ARAN

 

Con riferimento alla questione in oggetto appare anzitutto necessario rilevare che in base all’art.52 del D.Lgs.n.165/2001 ed all’art.3 del CCNL del 31.3.1999, il lavoratore può essere adibito anche a mansioni diverse da quelle di assunzione purché a queste equivalenti.

Secondo la giurisprudenza ormai consolidatasi in materia, l’assegnazione a nuove mansioni equivalenti non può comportare la diminuzione del livello di retribuzione che le mansioni in precedenza svolte garantivano al lavoratore; la suddetta garanzia si estende sia al trattamento fondamentale che a quello accessorio.

Non rientra, invece, nella garanzia retributiva la diversa ipotesi in cui il mutamento di mansioni sia stato posto in essere su richiesta del lavoratore e, quindi, per soddisfare uno specifico interesse di quest’ultimo.

In generale si può affermare che, nel caso di mutamento del profilo professionale del dipendente, il beneficio della conservazione del trattamento economico in godimento nell’ambito del profilo originariamente attribuito, anche con riferimento ai compensi ed alle indennità specifiche del trattamento accessorio (come l’indennità dell’art.37, comma 1, lett. c) del CCNL del 6.7.1995 e successive modificazioni e integrazioni), spetta solo nelle ipotesi di:

  1. a)       assegnazione unilaterale del dipendente ad altre mansioni, equivalenti nell’ambito della categoria, ad iniziativa cioè del solo datore di lavoro nell’esercizio del suo jus variandi, ai sensi dell’art. 52 del D.Lgs.n.165/2001 e dell’art. 3 del CCNL del 31.3.1999;
  2. b)      assegnazione ad altre mansioni collegata alla sopravvenuta inidoneità per motivi di salute del lavoratore alle mansioni del profilo posseduto.

Alla luce delle suesposte considerazioni deve essere valutata la particolare situazione esposta.

CCNL Comparto Enti Locali. Articolo 70 quinquies comma 1 – indennità per specifiche responsabilità. Serve un formale incarico.

Così afferma l’ARAN

 

L’indennità, prevista, nella disciplina previgente, dall’art. 17, comma 2, lett. f) del CCNL dell’1.4.1999 ed attualmente, dall’art. 70-quinquies, comma 1, del CCNL delle Funzioni Locali del 21.5.2018, si collega direttamente all’esercizio di compiti ed attività comportanti l’assunzione di specifiche responsabilità.

La disciplina contrattuale in esame demanda alle autonome determinazioni della contrattazione integrativa di ciascun ente la definizione dei criteri per l’individuazione degli incarichi di responsabilità cui è riconnettibile l’erogazione del compenso e per la quantificazione del relativo ammontare (in un importo non superiore ad € 3000), nel rispetto dei contenuti, requisiti e condizioni espressamente previsti dalla disciplina contrattuale collettiva nazionale.

La suddetta indennità può essere riconosciuta a ciascun lavoratore solo in presenza del formale ed espresso conferimento allo stesso di uno degli incarichi, comportanti l’assunzione di una qualche e diretta responsabilità di iniziativa e di risultato, precedentemente a tal fine individuati dal contratto integrativo dell’ente che intende riconoscerla.

Sulla base della richiamata disciplina, pertanto, l’indennità di cui si tratta può essere riconosciuta solo a seguito del formale conferimento dell’incarico al lavoratore, cui la medesima indennità sia  connessa.

Pubblico Impiego – RSU – richiesta di permessi sindacali. Obbligo del Responsabile del Servizio di verificare la capienza di ciascuna organizzazione sindacale – insussistenza – il controllo spetta alle RSU.

Così risponde l’ARAN

 

Per quanto attiene alla circostanza che il componente RSU richieda i permessi RSU autonomamente si osserva che l’art. 11, comma 2, del CCNQ del 4/12/2017 afferma che “il contingente dei permessi di spettanza delle RSU è … da queste gestito autonomamente nel rispetto del tetto massimo attribuito”. Conseguentemente in mancanza di un regolamento della RSU che disciplini le modalità di gestione del monte ore, i permessi RSU possono essere richiesti anche singolarmente da ciascun componente. In tali casi potrebbe risultare utile inoltrare la comunicazione di autorizzazione del permesso sindacale richiesto dal singolo componente RSU anche agli altri componenti in modo che questi ultimi siano messi a conoscenza, di volta in volta, dell’utilizzazione del monte ore di permessi a loro disposizione. Per quanto riguarda la verifica sul corretto utilizzo del permesso, spetta alla RSU intesa come organismo collegiale l’eventuale controllo sull’attività svolta mediante l’utilizzo dei permessi destinati alla stessa

Pubblico Impiego – Distacchi Sindacali – Comparto Enti Locali. Il responsabile del personale può negare distacchi ed aspettative sindacali per esigenze interne alla struttura?

Così risponde l’ARAN:

 

Il distacco o l’aspettativa sindacale, qualora sussistono i presupposti soggettivi ed oggettivi previsti dalle norme di riferimento, devono essere concessi.

Nell’ipotesi di richiesta di permessi per l’espletamento del mandato, invece, si ricorda che l’art. 10, comma 7 del CCNQ del 4/12/2017 (richiamato anche nell’art. 13, comma 3 del medesimo CCNQ con riguardo ai permessi per le riunioni di organismi direttivi statutari) prevede che “nell’utilizzo dei permessi deve essere garantita la funzionalità dell’attività lavorativa della struttura o unità operativa di appartenenza del dipendente…della fruizione del permesso sindacale va previamente avvertito il dirigente responsabile della struttura secondo le modalità concordate in sede decentrata”. Ne consegue che il datore di lavoro potrà rifiutare la concessione del permesso o per mancanza di ore disponibili o per esigenze di servizio che non consentano di garantire la funzionalità dell’attività lavorativa – in quest’ultimo caso nelle forme e modalità definite in contrattazione integrativa.

 

E’ compatibile l’attività di pubblico dipendente con la titolarità di un’impresa agricola?

L’attività di imprenditore agricolo è incompatibile con il pubblico impiego.

Anche la conduzione di un’impresa agricola di modeste dimensioni è incompatibile con la qualifica di impiegato pubblico.

Lo prevede la Corte di Cassazione nell’ordinanza n.27420 dell’1.12.2020.

Un dipendente di ente locale che andava svolgendo anche l’attività di piccolo imprenditore agricolo, in base al comma 58 dell’articolo 1 della legge 662/1996 chiedeva ed otteneva che gli venisse accordato un orario a tempo parziale.

La norma di legge appena citata consente al dipendente pubblico che richieda ed ottenga di lavorare con un orario a tempo parziale non superiore al 50% di svolgere anche altre attività normalmente interdette ai dipendenti pubblici, previa autorizzazione del datore di lavoro ed a patto che dette attività non interferiscano con la funzione pubblica svolta.

Quindi, attività vietate, anche se non interferenti con le competenze del dipendente pubblico, possono essere autorizzate a chi lavora a tempo parziale.

Il dipendente in questione, ritenendo però, ad un certo punto, come che l’attività agricola non fosse vera e propria attività di impresa e quindi mai vietata, chiede di tornare a lavorare a tempo pieno. Ne segue il rifiuto della pubblica amministrazione e quindi l’avvio di un contenzioso giudiziale con fasi alterne, definito con la sentenza che viene annotata.

La Corte di Cassazione alla fine richiamando l’articolo 60 del Testo Unico Pubblico Impiego DLGS 165/2001 laddove stabilisce che “L’impiegato non può esercitare il commercio, l’industria, né alcuna professione o assumere impieghi alle dipendenze di privati o accettare cariche in società costituite a fine di lucro, tranne che si tratti di cariche in società o enti per le quali la nomina è riservata allo Stato e sia all’uopo intervenuta l’autorizzazione del Ministro competente“.

Su tale base, ritiene la Corte di Cassazione di dover superare quella parte della giurisprudenza, specie amministrativa, secondo cui l’attività agricola non rientrerebbe fra le attività automaticamente incompatibili.

L’interpretazione che afferma la compatibilità si basa sulla considerazione in base alla quale detta attività non è stata specificamente individuata dall’art. 60 del D.P.R. n. 3 del 1957 tra quelle precluse per l’impiegato pubblico. Si è ritenuto sino ad oggi che deponga nel senso della esclusione dell’incompatibilità , anche il raffronto, sul piano sistematico, con la disciplina civilistica, atteso che nel codice civile all’attività agricola è dedicato uno specifico settore (titolo II, capo II) del medesimo libro (V – del lavoro), il quale contiene anche la disciplina attinente al commercio e all’industria (titolo II, capo III), alle professioni intellettuali (titolo III, capo II), al lavoro subordinato (titolo II, capo I), alle cariche societarie (titolo V). Quindi a detta di tale orientamento, che, come vediamo è stato superato dalla Cassazione, la mancata inclusione dell’attività agricola tra quelle vietate dal citato art. 60, sarebbe data dalla specificità ed atipicità dell’impresa agricola come elemento decisivo per ritenere la stessa compatibile con l’impiego pubblico a tempo pieno.

Ritiene la Suprema Corte come tale impostazione, però, non tenga conto dell’evoluzione subita dall’impresa agricola sul piano sociale, ma anche su quello normativo. Negli anni ’50, nei quali fu emanato il DPR n.3 Testo Unico degli Impiegati civili dello Stato, quasi ogni famiglia, a vario titolo, era implicata nell’agricoltura, sicché se tale attività fosse stata inserita, per via interpretativa, tra quelle incompatibili ne sarebbe derivata l’esclusione dall’impiego statale della maggior parte dei cittadini. Successivamente alla mutata situazione sociale, ha fatto seguito anche un evoluzione normativa.

Su tale base, rileva la Cassazione è intervenuta la legge 9 maggio 1975 n.153 (Attuazione delle direttive del Consiglio delle Comunità Europee per la riforma dell’agricoltura) secondo l’articolo 12 di questa disposizione di legge “”la qualifica di imprenditore agricolo principale va riconosciuta a chi dedichi all’attività agricola almeno 2/3 del proprio tempo di lavoro complessivo e ricavi dall’attività medesima almeno i 2/3 del proprio reddito globale da lavoro risultante dalla propria posizione fiscale“.

Dunque nonostante lo status specifico dell’impresa agricola in quanto non assoggettata al fallimento e non obbligata alla tenuta delle scritture contabili (articolo 2136 codice civile), essa non appare più come una ricorrente propaggine della vita familiare e comunque deve rispettare i canoni fondamentali dell’impresa che possono collidere con l’assunzione di un pubblico impiego, qualora non autorizzato con la formula del lavoro a tempo parziale.

Conferimento di incarichi a lavoratori in quiescenza. Interviene La Corte di Giustizia della Comunità Europea.

Con una recente sentenza la Corte di Giustizia della Comunità Europea Sezione VIII del 2.4.2020 ha ritenuto che la normativa nazionale che vieta nei confronti delle persone in quiescenza il conferimento di incarichi e consulenza costituisce una forma di discriminazione indiretta basata sull’età e quindi vietata dalla direttiva n.2000/78.

Si tratta in questione dell’articolo 5, comma 9 del DL 95/2012 che ha introdotto il divieto per le pubbliche amministrazioni di attribuire incarichi di studi e consulenza a soggetti già lavoratori privati o pubblici collocati in quiescenza. Detti incarichi possono essere affidati esclusivamente a titolo gratuito. Sono state emesse in proposto n.2 circolari interpretative da parte del Ministero della Funzione Pubblica per chiarire l’applicazione della norma. Con il termine generale di “lavoratori” usato dalla legge non si intendono i soli pensionati della pubblica amministrazione, ma anche quelli delle aziende private e stante il termine che non individua solo gli ex lavoratori dipendenti, potrebbero pure rientrarvi i pensionati delle aziende private.

 

 

I Quadri nel Pubblico Impiego. Un’occasione mancata ma non persa…

a. Breve cronistoria.

Con il DLGS 165/2001 il rapporto di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni è per la gran parte ricondotto alle regole del codice civile e della ordinaria normativa in tema di lavoro.
Si poneva da subito il problema della operatività in tale ambito dell’articolo 2095 dell’articolo 2095 del codice civile che suddivide i lavoratori nelle categorie dei dirigenti, dei quadri, degli impiegati e degli operai.

Il DLGS 165/2001 evidenziava invece esclusivamente la categoria dei dirigenti e quindi del restante personale non dirigenziale, pur sottolineando nell’allora articolo 40, comma 2 la presenza di spazi contrattuali per specifiche elevate professionalità. In particolare rilevava per questa organizzazione il tema dell’inquadramento delle professionalità medio – alte e quindi dei quadri.

b. La lunga strada del contenzioso.

Ne seguiva una lunga e fitta interlocuzione con la funzione pubblica. Erano quindi avviate numerose cause per il riconoscimento della categoria di quadro nell’ambito del comparto pubblico. Alcune sortivano esito positivo altre no.

Nel 2008, la Corte di Cassazione (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 6 marzo 2008 n. 6063) riteneva definitivamente che l’articolo 2095 del codice civile che prevede anche la categoria dei quadri non doveva trovare attuazione nell’ambito dell’impiego pubblico dove invece, a detta della Suprema Corte esistevano specifiche normative a tutela della professionalità
apicali. La Corte si riferiva all’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 che prevede nell’ambito della contrattazione collettiva apposita disciplina per le figure professionali che “che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” e che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano iscrizione ad albi oppure tecnicoscientifici
e di ricerca”. La Corte in sostanza riteneva questa una specifica disciplina di settore che impediva la trasposizione della categoria dei quadri dal codice civile alla disciplina del pubblico impiego. Va rilevato che ad oggi l’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 non ha trovato attuazione.
Particolare di rilievo, il Tribunale di Treviso, rinviava dapprima all’ARAN il contratto del comparto Ministeri laddove non contemplava la figura dei quadri, per verificare se le parti intendevano trovare una soluzione in merito. Ciò non solo non accadeva, ma ARAN e sindacati firmatari del Comparto Pubblico mandavano risposta al giudice escludendo tale soluzione.
Lo stesso magistrato riteneva il dover affidare la questione alle sole parti stipulanti, di rilevante incostituzionalità e quindi la questione era avviata alla Corte Costituzionale che però non la riteneva tale.

c. L’esperienza della Vice dirigenza mai attuata.

Di seguito anche grazie alle numerose insistenze dell’Organizzazione, la legge 145 /2002 (Legge Frattini) istituiva mediante l’articolo 17 bis la vice dirigenza la cui attuazione era poi affidata alla contrattazione collettiva di comparto.
Un tanto non avveniva e dopo alterne vicissitudini giudiziarie che vedevano anche l’intervento della Corte Costituzionale, l’articolo 17 bis era abrogato. Di seguito minore era l’interesse della Associazione per l’argomento.
Attualmente è pendente un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Va ricordato inoltre che nel 2001, il Parlamento Europeo – Ufficio Petizioni, dopo l’audizione del sindacato DIRSTAT a Bruxelles aveva ritenuto il governo e il parlamento italiano inadempienti perché dopo la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego non aveva istituito un’area quadri per il personale ex direttivo relegandolo nei livelli funzionali.

Per quanto riguarda la legge di abrogazione della vice dirigenza, essa era intervenuta dopo che erano passate
in giudicato alcune pronunce che su diversi versanti ritenevano la sussistenza del diritto.
Si riteneva in tal modo, che si fosse verificata un’indebita ingerenza del potere legislativo nell’ambito di una statuizione consolidata del potere giudiziario.

d. Prospettive

Con la legge 124/2015, erano poste le basi per la riforma della dirigenza (legge Madia). Non seguiva però nei tempi debiti la legge di attuazione e quindi ad oggi, la riforma è ancora in totale attesa di attuazione. Va notato come la legge delega 124/2015 non accenni né alla vice dirigenza, né all’introduzione della categoria dei quadri.
Un aspetto interessante è dato invece dalla riduzione del numero dei dirigenti e dalla prevista istituzione del ruolo unico della dirigenza.

Si potrebbe porre l’opportunità di seguire una nuova strada.
Fondamentalmente, l’istituzione della vice dirigenza è stata bollata come corporativa e costosa e quindi come un arretramento dell’organizzazione amministrativa. In realtà essa ha trovato una forte opposizione da parte del sindacato confederale (CISL in primis) che non ne ha permesso l’avvio.
Se questa ormai è storia, dobbiamo ora esaminare allo stato quali sono le possibilità di introdurre un’area dei quadri o della vice dirigenza nell’ambito del pubblico impiego percorrendo una nuova strada anche alla luce dei nuovi assetti che hanno interessato il settore.
Si propone innanzitutto di inserirsi nel solco della riforma della dirigenza che dovrà di seguito essere nuovamente avviata per sviluppare i temi della riduzione dei costi, della conseguente riduzione dei dirigenti e della costituzione di un ruolo unico che consenta alla Pubblica Amministrazione non solo di ridurre il numero dei dirigenti, ma di disporre anche di un nucleo di personale non dirigente, ma altamente qualificato cui attribuire compiti di sostituzione, di consulenza e di elevata specializzazione.

e. Partendo dalle criticità della legge abrogata.

L’introduzione della vice dirigenza avvenuta con la legge 145/2002 prevedeva una complessa architettura legale collegata alle categorie esistenti, alla delega di funzioni e ad un riconoscimento contrattuale.
Inoltre l’incarico del vice – dirigente presentava delle criticità in riferimento alle modalità di assegnazione degli incarichi al vice dirigente. Questa carenza costituiva un elemento di notevole e notata rigidità organizzativa. In tal modo infatti, i dipendenti assurti alla qualifica di vice – dirigente acquisivano una posizione sostanzialmente irremovibile con una totale
coincidenza tra rapporto di servizio e rapporto organico. In sostanza, i vice dirigenti avrebbero un incarico fisso a differenza dai dirigenti, soggetti, invece, alle valutazioni ed a possibili modifiche degli incarichi dirigenziali.
La sostanziale inamovibilità dall’incarico avrebbe potuto dar luogo ad un effetto perverso nella dinamica del rapporto tra gli organi di governo e la dirigenza, dove quest’ultima presentava un elemento di debolezza costituito dalla potestà di nomina e revoca da parte degli organi di governo a fronte di una sostanziale inamovibilità dei sottoposti vice dirigenti, mettendo così in pericolo il principio di separazione delle funzioni dirigenziali da quelle politiche, conferendo una maggior forza ai cosiddetti funzionari rispetto alla dirigenza.

Inoltre l’accesso alla vice dirigenza previsto dalla legge 145/2002 era pressochè automatico per i livelli più elevati dell’area C con adeguato titolo di studio. Mancava in effetti, una procedura selettiva nei confronti di un’area apicale C abbastanza generalizzata ed inflazionata e nessun criterio di valutazione per l’attribuzione dell’incarico.
Per contro, il sistema oggi vigente delle posizioni organizzative è tutto incentrato sul conferimento di un incarico nella quasi totale discrezionalità della pubblica amministrazione e sull’inesistenza di una base di dipendenti titolari di un diritto ad essere selezionati.
Si poneva così, almeno per i più critici, come una nuova forma di irrigidimento delle strutture dell’impiego pubblico, cui si preferirono le posizioni organizzative che da una parte salvaguardavano l’uniformità dell’inquadramento del personale non dirigenziale e dall’altra garantivano alle amministrazioni una notevole discrezionalità. Essa inoltre era particolarmente invisa ai sindacati tradizionali, in quanto prevedeva la creazione di una specifica e separata area anche contrattuale della vice dirigenza che avrebbe fatto di quadri e vice dirigenti e quindi delle specifiche organizzazioni di categoria dei soggetti della contrattazione collettiva.

f. L’emergere di nuove e attuali esigenze

– Il caso delle Agenzie Fiscali
Sulla base di tali considerazioni, si sarebbe dovuto puntare alla costituzione di un’area quadri anche nel pubblico impiego cui poi conferire appositi incarichi e deleghe su valutazione dei dirigenti.
Fatte queste debite precisazioni, si riscontrano elementi del tutto oggettivi che rendono necessaria ed attuale la costituzione di questa area professionale.

Va ricordato che con sentenza del 25 febbraio 2015, la Corte Costituzionale censurava le Agenzie Fiscali che nella mancanza di quadri intermedi in grado di coprire determinate posizioni, aveva attribuito incarichi dirigenziali a propri funzionari pe assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture e l’attuazione delle misure di contrasto all’evasione.
Ne traeva lo spunto la finanziaria per il 2018 legge 27.12.2017 n.205 che prevedeva all’articolo 1, comma 93 la possibilità per le agenzie fiscali di istituire posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata professionalità o particolare specializzazione ivi compresa la responsabilità di uffici operativi di livello non dirigenziale nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, conferendo dette posizioni a funzionari con almeno cinque anni di
esperienza nella terza area mediante una selezione interna in base alle conoscenze professionali ed alle capacità tecniche ed alle valutazioni conseguite negli anni precedenti, attribuendo agli stessi il potere di adottare atti amministrativi anche a rilevanza esterna con poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, articolando dette posizioni in relazione ai poteri conferiti, favorendo quindi detto personale nell’accesso alla dirigenza tramite concorso facilitato.

La norma citata in maniera settoriale e non sempre chiara e coordinata istituisce di fatto una categoria molto affine alla vice dirigenza, attribuendo delle posizioni organizzative, termine che appartiene alla contrattazione collettiva e non alla legge, a determinati soggetti predeterminati con ampi poteri.
La norma così emanata rivela da un lato un indicibile elemento di confusione e di cattivo coordinamento con il testo unico del pubblico impiego e con la contrattazione collettiva, introducendo così anche elementi di dubbia costituzionalità.
Essa però appare come sintomatica della necessità di un’area professionale intermedia tra la dirigenza ed il resto del personale anche in considerazione di esigenze di risparmio.
Essa per quanto infelicemente formulata, potrebbe dare lo spunto per un ripensamento generale e di ampio respiro per l’introduzione definitiva della vice dirigenza nell’impiego pubblico in termini mutati rispetto alla disciplina abrogata.

– La riforma Madia nella parte non attuata.
Un ulteriore cenno va alla legge delega 124/2015 Riforma Madia nella parte concernente la dirigenza che però non ha trovato attuazione, essendo scaduti i termini per la decretazione.
L’articolo 11 della previsione di legge si occupa della dirigenza pubblica ed in particolare al punto c) dell’accesso alla dirigenza, stabilendo l’immissione dei vincitori del corso concorso in fase iniziale quali funzionari, senza tener conto che il testo unico sul pubblico impiego non prevede né tali figure né un loro equivalente, prevedendo inoltre per i dirigenti privi di incarico la possibilità di avanzare istanza per passare alla carriera di funzionario.
Non si tratta davvero di un semplice lapsus del legislatore, ma ancora una volta di una sensazione di necessità di un’area di quadri – vicedirigenti – funzionari.

– Il piano triennale dei fabbisogni del personale e l’emergere della professionalità.
Va ricordato ancora il recente DLGS 75/2017 che ha modificato l’articolo 6 del DLGS 165/2001 introducendo il piano triennale dei fabbisogni del personale consentendo alle pubbliche amministrazioni di superare il concetto obsoleto di organico intervenendo sull’assetto non solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo delle risorse, del livello di inquadramento e della loro specializzazione.
Si assiste quindi ad un rovesciamento del concetto numerico e qualitativo delle risorse che non dovrà essere più adeguato
esclusivamente alla pianta organica in essere, ma alle reali esigenze della struttura.
Questo primo riconoscimento alla qualità ed alla professionalità del personale ben può dar luogo all’introduzione di un’area di professionisti e specialisti nella pubblica amministrazione.

Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno alla Pubblica Amministrazione.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001) cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.