CASSAZIONE – Gli oneri di allegazione che incombono sul lavoratore che chiede un risarcimento a seguito di infortunio.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 05/04/2024, n. 9120.

La Cassazione ha affermato che nel caso sia evocata la responsabilità del datore di lavoro a seguito di infortunio non è necessaria da parte del lavoratore l’allegazione specifica delle norme di cautela violate, essendo sufficiente l’esposizione delle modalità di infortunio che consenta l’emergere della responsabilità datoriale.

È, comunque, necessario, afferma la Corte, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, ed il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo ed il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l’onere di provare l’inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti (Nel caso di specie, richiamati gli enunciati principi, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata che, nel respingere la domanda di risarcimento del danno differenziale conseguente ad un infortunio verificatosi mentre il lavoratore ricorrente era intento a rifornire di gasolio il camion che, in veste di autista, gli era stato assegnato in dotazione, aveva, da un lato, ritenuto necessaria l’individuazione delle norme di prevenzione violate, e dall’altro considerato la negligenza di quest’ultimo idonea da sola ad elidere la responsabilità datoriale).

Di seguito, la motivazione della sentenza:

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  1. Con l’unico motivo del ricorso il lavoratore ha denunciato, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5 c.p.c., violazione o falsa applicazione dell’art. 2087c.c., degli artt. 1518 del D.Lgs. n. 81 del 2008, dell’art. 116 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto storico decisivo.
  2. Il ricorrente ha dedotto di avere allegato, fin dal ricorso introduttivo del giudizio (che ha trascritto nelle parti essenziali a p. 8), che l’infortunio si era verificato nell’espletamento dell’attività lavorativa, presso la sede operativa della società datoriale sita in N e che, nell’effettuare il rifornimento di gasolio al camion in dotazione presso il distributore ivi collocato, era caduto a terra a causa dell’intralcio costituito dal tubo di erogazione sprovvisto di sistema di sicurezza. Ha aggiunto che tale dinamica era riportata nella denuncia di infortunio (riprodotta nel corpo del ricorso e localizzata – doc. 6 allegato al ricorso di primo grado) trasmessa dalla società all’Inail, che aveva riconosciuto e indennizzato l’infortunio. Ha affermato di avere, fin dal ricorso introduttivo del giudizio (v pp. 11-12 del ricorso in cassazione), argomentato sulla nocività del luogo di lavoro e, precisamente, sul fatto che “il tubo andava a cadere su una piattabanda posizionata in maniera irregolare al di sotto del distributore e per l’intera estensione dello stesso, creando una sporgenza da uno dei due lati (cfr. rilievi fotografici allegati). La collocazione della piattabanda determinava un dislivello tra la superficie di calpestio e il distributore, atteso che la stessa fuoriusciva da uno dei due lati dell’erogatore, creando una sporgenza.. L’incidente poteva essere evitato modificando lo stato dei luoghi ovvero apponendo delle apposite barriere protettive eliminando il dislivello…nonché adottando un sistema di riavvolgimento automatico della pompa…L’incidente …è da attribuirsi alla esclusiva responsabilità del datore di lavoro…per non avere apprestato le opportune misure di sicurezza nell’area di sosta dove è ubicato il serbatoio del gasolio per consentire il rifornimento dei mezzi”.
  3. Il ricorso è fondato.
  4. L’art. 2087c.c., norma di chiusura del sistema di prevenzione e di sicurezza nel rapporto di lavoro, impone all’imprenditore di adottare tutte le misure e le cautele atte a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratori, tenuto conto delle caratteristiche concrete dei luoghi di lavoro e, in generale, della realtà aziendale. L’obbligo di sicurezza imposto dall’art. 2087c.c. si inserisce nella struttura del rapporto obbligatorio tra lavoratore e datore di lavoro ed è fonte di responsabilità contrattuale.
  5. La formulazione della norma in esame, attraverso l’espresso riferimento alle “misure che secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare la integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, correla l’obbligo di protezione alle concrete e indefinite situazioni di rischio a cui il lavoratore può trovarsi esposto e in tal modo impone al datore di lavoro l’adozione non solo delle misure cd. nominate ma anche di tutte quelle che, seppure non tipizzate, siano richieste dalle conoscenze tecniche e dall’esperienza riferite ad un determinato momento storico.
  6. Le caratteristiche dell’obbligo di sicurezza, come appena delineate, si riflettono sul contenuto degli oneri di allegazione e prova che gravano sul creditore dell’obbligo medesimo, il lavoratore. Questi, ove agisca verso il datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento ed il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione ex art. 1218c.c. (Cass. n. 10319 del 2017n. 14467 del 2017n. 34 del 2016n. 16003 del 2007).
  7. Sulla allegazione del “fatto costituente inadempimento” occorre, tuttavia, svolgere alcune precisazioni, partendo dalla premessa che “l’inadempimento esprime la qualificazione giuridica di una determinata condotta, commissiva o omissiva, adottata in violazione di un obbligo preesistente, (e ciò) comporta che la relativa allegazione debba modularsi in relazione alle caratteristiche ed al contenuto di tale obbligo” (v. Cass. n. 29909 del 2021, in motivazione, p. 6 par. 5.8., e precedenti ivi richiamati).
  8. Posto che l’art. 2087c.c. pone un generale obbligo di tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, senza ulteriori specificazioni in merito alle condotte omissive e commissive destinate a sostanziarlo, l’onere di allegazione del lavoratore non può estendersi fino a comprendere anche l’individuazione delle specifiche “norme di cautela violate”, come preteso dalla Corte di merito, specie ove non si tratti di misure tipiche o nominate ma di casi in cui molteplici e differenti possono essere le modalità di conformazione del luogo di lavoro ai requisiti di sicurezza. È, invece, necessario, che il lavoratore alleghi la condizione di pericolo insita nella conformazione del luogo di lavoro, nella organizzazione o nelle specifiche modalità di esecuzione della prestazione, ed il nesso causale tra la concretizzazione di quel pericolo e il danno psicofisico sofferto, incombendo a questo punto su parte datoriale l’onere di provare l’inesistenza della condizione di pericolo oppure di aver predisposto tutte le misure atte a neutralizzare o ridurre, al minimo tecnicamente possibile, i rischi esistenti.
  9. In altri termini, l’identificazione dell’inadempimento, quale componente dell’onere di allegazione del lavoratore, “deve essere modulata in relazione alle concrete circostanze e alla complessità o peculiarità della situazione che ha determinato l’esposizione al pericolo” (v. Cass. n. 29909 del 2021cit., in motivazione, con cui è stata cassata la pronuncia di merito che aveva rigettato una domanda di risarcimento del danno, in quanto carente di allegazioni circa le condotte, commissive od omissive necessarie a configurare l’inadempimento datoriale, pur rilevando come tale “deficit” discendesse dalla stessa dinamica dell’infortunio che aveva visto il dipendente, macchinista di Trenitalia Spa, colpito all’occhio da schegge metalliche prodotte dalla frenatura di un rotabile, mentre era in attesa di prendere la guida di un treno sul marciapiede di un binario).
  10. Nella fattispecie oggetto di causa, il lavoratore nel ricorso introduttivo della lite ha descritto lo stato dei luoghi aziendali, esattamente del distributore ove egli doveva fare rifornimento per il veicolo in dotazione, sottolineando l’esistenza di un dislivello tra il piano di calpestio e il distributore e la assenza di barriere protettive e di sistemi di riavvolgimento automatico della pompa, condizioni tali da rendere concreto il pericolo di caduta nell’esecuzione delle operazioni di rifornimento (v. ricorso per cassazione p. 11-12 in cui sono trascritti brani del ricorso introduttivo di primo grado).
  11. Occorre, ancora e sotto diverso profilo, considerare che, in materia di tutela dell’integrità psicofisica del lavoratore, il datore di lavoro, in caso di violazione della disciplina antinfortunistica, è esonerato da responsabilità soltanto quando la condotta del dipendente abbia assunto i caratteri dell’abnormità, dell’imprevedibilità e dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, qualora non ricorrano simili caratteristiche nella condotta del lavoratore, l’imprenditore è integralmente responsabile dell’infortunio che sia conseguenza dell’inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell’obbligo di sicurezza integra l’unico fattore causale dell’evento, non rilevando in alcun grado l’eventuale concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l’incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass. n. 27127 del 2013n. 798 del 2017n. 16026 del 2018);
  12. La Corte d’appello non ha fatto corretta applicazione dei principi finora richiamati, sia quanto al contenuto dell’onere di allegazione e prova del lavoratore, avendo ritenuto necessaria l’individuazione delle norme di prevenzione violate, e sia nella valutazione della eventuale negligenza di quest’ultimo, avendo considerato la stessa idonea da sola ad elidere la responsabilità datoriale.
  13. Per tali ragioni, accolto il ricorso, deve cassarsi la sentenza impugnata e rinviarsi la causa alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della fattispecie conformandosi ai principi di diritto sopra richiamati, oltre che alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione

Così deciso nell’adunanza camerale del 30 gennaio 2024

Depositato in Cancelleria il 5 aprile 2024

L’onere della prova del lavoratore con riferimento alla richiesta di risarcimento danni

La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza n. 21682/2023, si è espressa su un caso di richiesta di risarcimento danni (patrimoniale, non patrimoniale biologico, esistenziale e morale) formulata da un lavoratore a seguito di asserite condotte mobbizzante subite.

L’istruttoria svolta nelle fasi di merito ha tuttavia fatto emergere il mancato raggiungimento della prova da parte del lavoratore circa la ricostruzione fattuale in ordine alla sussistenza di condotte datoriali di natura vessatoria e persecutoria continuative, con conseguente assorbimento delle questioni attinenti a sussistenza e quantificazione dei danni.

Del pari è stata esclusa (in quanto non adeguatamente provata) la sussistenza di un comportamento illecito datoriale in nesso di causa con il danno denunciato, sulla base del materiale probatorio complessivamente valutato.

Precisa la Cassazione che in tema di onere della prova in riferimento al diritto al risarcimento dei danni in favore del lavoratore per violazione degli obblighi del datore di lavoro di sicurezza e di protezione della salute del lavoratore di cui all’art. 2087 c.c., non si tratta di ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro.

Invero, i rispettivi oneri di allegazione e prova sono articolati come segue: il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l’attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili (Cass. n. 34968/2022; cfr. anche Cass. n. 10992/2020, n. 14064/2019, n. 8911/2019, n. 24742/2018).

Appunto poiché l’art. 2087 c.c. non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento, ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi.

Neppure la riconosciuta dipendenza delle malattie da una “causa di servizio” implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell’ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell’organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall’ambito dell’art. 2087 c.c., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (così Cass. n. 2038/2013; cfr. anche Cass. n. 25151/2017).

CASSAZIONE – Rito del lavoro e prova testimoniale: sanabile l’omessa indicazione dei nominativi dei testi da escutere

Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ordinanza, 01/12/2021, n. 37773.
Nel rito del lavoro, la mancata indicazione dei nominativi dei testi nell’atto introduttivo, qualora la prova testimoniale sia stata comunque dedotta senza indicare le persone da interrogare, non determina la decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concretizza una mera irregolarità che consente al giudice l’esercizio del potere – dovere di consentirne l’integrazione ex articolo 421 CPC, concedendo un termine perentorio per la regolarizzazione, integrando così le indicazioni concernenti le persone da interrogare. Solo l’inosservanza di detto termine produce la decadenza dalla prova, rilevabile anche d’ufficio.
Nel caso di specie, si trattava del ricorso di un lavoratore per ottenere il pagamento degli straordinari, senza aver indicato i nominativi dei testi che avrebbero dovuto confermare lo svolgimento della prestazione oltre l’orario.
La recente pronuncia della Sezione Lavoro è totalmente conforme a quanto a suo tempo stabilito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n.262/1997 la quale risolveva un contrasto giurisprudenziale in merito, ammettendo l’applicabilità dell’integrazione in base all’articolo 421 CPC.
Se esaminiamo il dato testuale dell’articolo 421 CPC, notiamo che il termine può con cui si apre il secondo comma della norma medesima porterebbe a ritenere come l’esercizio dei poteri officiosi costituisca una mera facoltà discrezionale del Giudice (in tal senso, Cassazione 6 marzo 1987 n.2382, 11 gennaio 1988 n.108, 3 maggio 1989 n.2588, 15 maggio 1990 n.4147. Di seguito, partendo dalla sentenza 17 giugno 2004 n.11353 delle Sezioni Unite è stato ritenuto come l’esercizio dei poteri officiosi di cui all’articolo 421 CPC non costituisca una facoltà discrezionale del Giudice del Lavoro, ma un suo obbligo, la cui omissione debba essere motivata si da consentire il sindacato della Corte di legittimità, sia sotto il profilo della violazione di legge, che del vizio di motivazione.

Avvocato Fabio Petracci.