PARERE Lavoratore autonomo e professionista con cassa propria che opera in prestazione coordinata e continuativa: pagamento dei contributi e diritto alla pensione in caso di mancato pagamento dei contributi

Mi viene richiesto il seguente parere:

Nel caso del lavoratore autonomo e nel caso del professionista con cassa propria che opera in prestazione coordinata e continuativa – in particolare, nel caso dell’infermiere che ha anche un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, ad esempio, con una casa di risposo – su chi ricadono gli obblighi della contribuzione? E, nel caso in cui questi obblighi non siano adempiuti, quali sono le conseguenze, e quali sono le conseguenze sul diritto alla prestazione pensionistica?

Fornisco di seguito il parere:

  1. Il lavoratore autonomo

I lavoratori autonomi di cui all’art. 53 del DPR 917/1986, i titolari di rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e gli incaricati di vendita a domicilio – se si tratta della loro attività abituale, ancorché non esclusiva, ma anche se l’attività di lavoro autonomo è occasionale e il loro reddito annuo supera i 5.000 euro – sono tenuti, ex art. 2 commi 26-32 della legge 335/1995, ad iscriversi alla gestione separata dell’INPS.

L’obbligo di iscrizione alla gestione separata è esteso ad altre categorie di lavoratori, quali assegnisti e dottorandi di ricerca (legge 240/2010 e 315/1998), gli spedizionieri doganali (legge 230/1997), e associati in partecipazione di cui agli art. 2549 e segg. del codice civile (legge 326/23003).

I professionisti lavoratori autonomi iscritti in albi professionali e con cassa previdenziale propria, invece, sono invece esclusi dall’iscrizione alla gestione separata.

La prestazione del lavoratore può dirsi coordinata e continuativa, quindi, qualora non si tratti di un’attività occasionale o episodica, e deve essere resa nell’ambito di un rapporto di lavoro a favore di un determinato soggetto, senza l’uso di mezzi organizzati, di proprietà del lavoratore, e senza che l’attività rientri nei compiti già attribuiti ad un lavoratore subordinato, con retribuzione predefinita e periodica.

Infatti, il Tribunale di Roma sez. Lavoro nella sentenza 24.03.2020 (S.I.E. Società Iniziative Editoriali S.p.a. c. INPGI) ha enunciato che in tali rapporti di lavoro autonomo “l’obbligo di contribuzione richiede solo che si provi che la collaborazione abbia i caratteri della continuità e collaborazione, e quindi: a) la prestazione si personale o almeno prevalentemente personale, nel senso che l’apporto personale deve essere prevalente rispetto a quello di eventuali collaboratori del collaboratore e dell’eventuale impiego di mezzi propri; b) la prestazione sia continuativa, ossia non meramente occasionale, ma perduri nel tempo ed importi un impegno costante; c) la prestazione si svolga in coordinamento con il committente e sia diretta al conseguimento delle finalità di questi”.

La legge 183/2010 dispone che l’omesso versamento dei contributi previdenziali nelle forme e nei termini previsti della legge, dei 2/3 a carico del datore di lavoro, configura l’ipotesi di cui all’articolo 2 del DL 463/1983, comportando l’applicazione di una sanzione pecuniaria a carico del datore stesso, ma la prestazione pensionistica al lavoratore verrà versata comunque.

  1. Il professionista con cassa previdenziale propria

Come anticipato sopra, l’iscrizione alla gestione separata dell’INPS non è applicabile ai professionisti iscritti in albi professionali e con cassa previdenziale propria, quali ad esempio avvocati o infermieri, qualora inseriti in un rapporto con prestazione coordinata e continuativa, che invece versano integralmente i loro contributi a tale cassa e non alla gestione separata dell’INPS.

Nel caso in cui il professionista, nel caso di specie un infermiere, abbia un rapporto di prestazione lavorativa coordinata e continuativa con il committente, ad esempio una casa di riposo per anziani, l’obbligo di contribuzione alla cassa previdenziale ENPAPI grava per 1/3 sull’infermiere e per 2/3 sul committente (articolo 3 del D. lgs. 103/1996). I committenti sono tenuti quindi ad inviare la denuncia contributiva mediante la procedura DARC e ad effettuare il versamento della contribuzione complessivamente dovuta, anche per la quota a carico del collaboratore.

Le sanzioni per chi non paga ENPAPI sono previste dagli articoli 10 e 11 del regolamento della Cassa stessa. Vengono applicate, quindi, agli iscritti che pagano i contributi in ritardo, oppure che pagano un importo inferiore al dovuto, o che non inviano o inviano in ritardo la dichiarazione del reddito professionale, o inviano una comunicazione del reddito professionale infedele, e dipendono dalla tipologia del mancato adempimento e dal ritardo. Per la riscossione dei contributi insoluti, ENPAPI può avvalersi di procedure ingiuntive ed esecutive previste dalla legge.

Inoltre, chi non è in regola con gli adempimenti non può partecipare ai bandi previdenziali dell’ente, e non può accedere a borse di studio per i figli e a supporto per l’acquisto di una casa e per l’avvio dell’attività professionale.

La natura obbligatoria del pagamento permette all’ente di avvalersi in ogni tempo, per l’attività di vigilanza, della conoscenza del reddito imponibile dell’iscritto, attraverso i dati della Amministrazione finanziaria oppure di altri soggetti pubblici e privati.

Risarcimento da licenziamento illegittimo e indennità di disoccupazione. Una recente decisione della Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione con la sentenza Cass. civ. Sez. lavoro Ord., 26/08/2020, n. 17793 ha stabilito che la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo.

Ha stabilito la Corte che l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento.

Solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18.

La pronuncia della Cassazione consegue all’impugnazione del licenziamento da parte di un lavoratore cui il Tribunale aveva riconosciuto l’ordinario risarcimento del danno anziché la reintegra che ormai è riservata in limitati casi.

L’Inps in forza di un decreto ingiuntivo richiedeva la restituzione di quanto percepito dal lavoratore a titolo di indennità di disoccupazione.

Il giudice di merito sia in primo che in secondo grado aveva ritenuto che il ricorrente  non era stato reintegrato nel posto di lavoro, nè aveva ricevuto spettanze retributive, ma un mero risarcimento e che ciò escludeva che l’indennità di disoccupazione potesse diventare indebita per il solo fatto di aver ottenuto una sentenza favorevole

La Suprema Corte ha richiamato il R.D.L. 4 ottobre 1935, n. 1827,  che all’ art. 45 stabilisce che l’evento coperto dal trattamento di disoccupazione riguarda  l’involontaria disoccupazione per mancanza di lavoro, ossia quella inattività, conseguente alla cessazione di un precedente rapporto di lavoro, non riconducibile alla volontà del lavoratore, ma dipendente da ragioni obiettive e cioè mancanza della richiesta di prestazioni del mercato di lavoro La funzione dell’assegno è quindi, secondo la Corte quella di fornire in tale situazione ai lavoratori (e alle loro famiglie) un sostegno al reddito, in attuazione della previsione del art. 38 Cost., comma 2.

Ha quindi rilevato la Corte di Cassazione che ” la domanda per ottenere il trattamento di disoccupazione non presuppone neppure la definitività del licenziamento e non è incompatibile con la volontà di impugnarlo, mentre l’effetto estintivo del rapporto di lavoro, derivante dell’atto di recesso, determina comunque lo stato di disoccupazione che rappresenta il fatto costitutivo del diritto alla prestazione, e sul quale non incide la contestazione in sede giudiziale della legittimità del licenziamento” (v. anche Cass. 11.6.1998 n. 5850, Cass. n. 4040 del 27/06/1980) e che ” solo una volta dichiarato illegittimo il licenziamento e ripristinato il rapporto per effetto della reintegrazione le indennità di disoccupazione potranno e dovranno essere chieste in restituzione dall’Istituto previdenziale, essendone venuti meno i presupposti, così non potendo, peraltro, le stesse essere detratte dalle somme cui il datore di lavoro è stato condannato ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18

 

Offline il sito dell’INPS, l’opinione di un quadro informatico.

In questi giorni, abbiamo assistito al default del sito informatico dell’INPS che ha causato nell’ambito della situazione di emergenza dovuta al Coronavirus un ulteriore emergenza che ha impedito la distribuzione degli aiuti economici stabiliti dal Governo.
Per capire almeno alcune delle ragioni che non permettono a queste strutture di funzionare correttamente, pubblichiamo la testimonianza di un quadro informatico di un ente previdenziale.
Come vedremo, alla vicenda personale di mortificazione della professionalità, si accompagnano scelte aziendali che non sempre appaiono corrette.
Pubblichiamo questa esperienza , non per polemica, in questo momento non ce ne sarebbe proprio bisogno, ma perché in futuro la professionalità acquisita non venga trascurata e sprecata.

UN PO’ DI STORIA
L’informatizzazione dell’ente inizia nel 1983 con il cosiddetto Nuovo Sistema Informativo.
Questo prevedeva, oltre all’informatizzazione delle aree istituzionali (“premi” e “prestazioni”), la creazione di un CED per ciascuna sede territoriale e l’installazione di uno o due “mainframe” (i cosiddetti sistemi dipartimentali”, IBM 8100 prima con sistema operativo DPCX e, in seguito IBM 9370 con sistema operativo DPPX) e di un terminale “stupido” con relativa stampante per ciascun utente amministrativo.
Nei CED erano previsti 2 “operatori di controllo” per ciascun sistema dipartimentale. A ………, dove cominciai ad operare, eravamo in 4 per la sola sede di ……….
Gli “operatori” vennero selezionati su base volontaria attraverso quiz psico-attitudinali (quelli classici che la IBM allora somministrava per selezionare il proprio personale). Per essere ammessi alla selezione bisognava dichiarare in forma scritta l’impegno, in caso di esito positivo, di frequentare i successivi corsi di formazione e le successive selezioni (successivamente fu illegittimamente inibito agli informatici, per salvaguardare l’investimento in formazione fatto su di loro, di accedere alle selezioni per ispettori di vigilanza, in pratica “bloccandoli” nel profilo in maniera discriminatoria). Ai quiz seguiva il corso selettivo di tre settimane consecutive a Roma, presso il “Servizio Meccanizzazione” , Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale). La selezione consisteva nell’invio ai corsi del doppio del personale necessario che veniva poi dimezzato attraverso una esame finale. Una selezione seria, dunque!
Già allora, per il merito delle problematiche trattate, il rapporto tra il personale informatico “periferico” e la direzione centrale tendeva ad essere diretto e non mediato gerarchicamente dalle direzioni (allora “ispettorati”) regionali e le direzioni delle unità di appartenenza (sedi).
I direttori delle sedi, poco collaborativi e generalmente chiusi al cambiamento, mal digerivano quello che interpretavano come un eccesso di indipendenza e si opponevano al fatto che il personale migliore venisse sottratto al buco nero burocratico-amministrativo, ponendo in atto resistenze passive di ogni genere attraverso atteggiamenti contraddistinti da ignoranza, arroganza, supponenza, ignavia, negligenza. Esercitarono pressioni corporative anche sul Direttore Generale che, per ridimensionare lo “scandalo” della presenza di questo personale selezionatissimo e “anarchico”, fino ad indurlo a scrivere una lettera, infarcita di ambiguità , dove tra le righe apriva ad una possibilità di utilizzo del personale informatico “anche” sul fronte amministrativo (i “tempi morti”, fisiologici in un CED, che morti non sono affatto perché sono lo spazio per elaborare soluzioni che richiedono impegno mentale, venivano interpretati, nella loro visione tradizionalmente asfittica che non concepisce necessario il “pensare”, come dolce far niente in orario d’ufficio). Ricordo, di quell’antica lettera la frase-cerniera, “onde non rimanere avulsi dal contesto produttivo”, come se gli informatici non producessero nulla, come se non fossero, se non gli unici, tra i pochi, ad avere una visione globale dei problemi da quell’osservatorio privilegiato che si era rivelato il CED, come se non fossero il motore concreto di un cambiamento epocale nel modo di lavorare.
Questa strategia di corto respiro e, soprattutto, inutile portò al consolidamento del legame con la Direzione Centrale e con le énclave più illuminate di questa, creando una sorta di legame cameratesco con colleghi e dirigenti contraddistinto da orizzontalità, degerarchizzazione pur nel rispetto dei ruoli, spirito di corpo. Il “tu” era d’uso, come negli ambienti IBM, e nelle molteplici occasioni in cui si andava a Roma ci si trovava anche fuori dalle mura dell’Istituto. Con alcuni elementi del mitico Punto Assistenza Utenti, tutti ormai in pensione da anni, grazie anche ai “social”, esistono ancora oggi rapporti da “commilitoni”.
Ovviamente non fu per tutti così, alcuni colleghi, soprattutto in realtà più provinciali (come quella , dove opero dal 1991,), non seppero contrastare adeguatamente le pressioni dei direttori di sede e accettarono di svolgere, a latere di un lavoro già impegnativo, anche lavoro amministrativo. Quivi u collega , come tutto ringraziamento per essersi occupato anche di rendite, fu deferito alla Corte dei Conti e si vide per anni la liquidazione bloccata). Come era prevedibile ne uscì pulito, visto che la causa del danno erariale era da ascriversi non al suo operato, bensì a patologie organizzative endemiche, ma non ripagato a sufficienza né del lavoro svolto, né dei patemi subiti.
Questo legame diretto con la direzione centrale, come vedremo in seguito, da via di fuga si trasformerà in un boomerang e, comunque, ha rappresentato fin dall’inizio una ulteriore patologia organizzativa che si cronicizzerà. Grazie al combinato disposto di questa doppia stortura, i problemi informatici erano (e sono) percepiti come problemi esclusivi “degli informatici” e basta, e non della struttura di appartenenza. Addirittura la gestione di parte degli approvvigionamenti del materiale di consumo (ad es. nastri e cartucce per stampanti, diversamente da quanto accadeva per la carta e le penne) avveniva (e in molte realtà ancora avviene) a cura dei CED e non di quelli che, al tempo, si chiamavano economati). Fin da allora, e proprio grazie agli atteggiamenti di coloro che sembrava auspicassero il contrario, avveniva la trasformazione di fatto del CED in “corpo separato” a cui tutto chiedere e nulla dare in termini di logistica e sinergie organizzative, salvo far valere la gerarchia ove ve ne fosse necessità: il CED già da allora percepito come “appaltatore” dei sevizi informatici e non già come momento organizzativamente e logisticamente coordinato con il resto della struttura.
I RAPPORTI CON I COLLEGHI
La questione dei “fannulloni” (Brunetta) e/o “nullafacenti” (Ichino) non nasce per caso o per invenzione: insufficienze logistico-organizzative, modalità di selezione del personale ingerenze indebite e abusive da parte di elementi politici (e conseguenti cattivi esempi) hanno, nel tempo, portato il personale ad assumere modalità di adattamento al “sistema” tali da legittimare e garantire, pro domo sua, sempre il massimo rendimento con il minimo sforzo ed evitare il rischio di “sovraesposizione”. Il motto potrebbe essere “sbaglia chi lavora e io non sbaglio mai”.
Quale alibi migliore dunque dell’informatica che non funziona? Come recita un saggio proverbio piemontese “Na cativa lavandera a treuva mai na bona pera” (la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra). Peccato che a fare da parafulmine fossero (e sono) gli informatici, sia per i malfunzionamenti endemici all’INAIL, sia per la strumentalizzazione di questi.
Un illuminante aforisma dice: “Quando gli altri non sanno ciò che tu sai, tu non sai niente”. Quando a non sapere ciò che tu sai è il tuo responsabile il clima si fa pesante.
Il rapporto con i dirigenti normalmente si manifesta in due modalità tipiche, opposte ma entrambe esiziali. La prima consiste nella pretesa di fare i controllori con gli strumenti che man mano ti mette a disposizione il controllato; la seconda, più subdola, nel “dare carta bianca” per non assumersi nemmeno le responsabilità di carattere generale e/o liminare.
Il rapporto con i colleghi amministrativi è ancora più scivoloso. A parte rare eccezioni la norma consiste nello spacciare per “tecnico” e quindi di competenza dell’informatico, ogni problema di tipo pratico o gestionale, dalla sostituzione della cartuccia di toner fino all’uso di un programma applicativo o di una procedura informatizzata nella quale l’informatico non può nemmeno entrare perché, correttamente, non abilitato. Il problema non è tanto quello di ricordare agli interessati, anche a muso duro, che sono affari loro, ma di ricevere comunque venti telefonate e discutere venti volte, quando solo una o due di quelle telefonate sono pertinenti. Dati i presupposti non si tratta mai di telefonate “serene”.
I peggiori sono quelli che o perché sanno che verranno mandati al diavolo o perché non vogliono assumersi la piena responsabilità della loro accidia, vanno dal direttore. Questi ovviamente chiama l’informatico e, dopo aver ottenuto la spiegazione, chiede “per favore” di mettere in condizione il collega, solitamente un caso umano, di operare, o di smascherare l’alibi. Questo comporta ovviamente il dover affrontare tensioni interpersonali delle quali chi ha scelto di occuparsi di questioni tecniche non è tenuto a occuparsi, il dover assistere, in alcuni casi a scenate isteriche, pianti e sceneggiate invereconde.
Vi è inoltre la pretesa che l’informatico supplisca a formazione, informazione, addestramento carenti o del tutto inesistenti (grottesco dopo oltre quindici anni di formazione negata).
Solitudine, incomprensione, carico mentale (elaborare soluzioni a problemi è diverso che passar carte!), carico psicologico da oggettive difficoltà relazionali diventano il leitmotiv di una funzione che dovrebbe essere esclusivamente tecnica!
RIPRENDIAMO LA STORIA
Intanto l’informatica continuava ad evolversi. All’inizio degli anni ’90 ai vecchi mainframe vennero affiancati sottosistemi UNIX per la gestione delle azioni di rivalsa (progetto “polaris”) e di quella che poi sarebbe diventata la “gestione documentale”), ai terminali stupidi vennero sostituiti dei personal computer con sistema operativo windows 3.1 e subito dopo windows ’95, comparvero i primi collegamenti internet, su rete ISDN e i primi indirizzi di posta elettronica, abusivi e artigianali, implementati a cura dei CED (su sollecitazione impropria della dirigenza) grazie ai servizi offerti da provider gratuiti tipo “libero” (bisognava “far vedere” all’“esterno” che si era “avanti”).
Sempre pressati da un surplus di lavoro derivante dai rapporti distorti con i colleghi e con la dirigenza, gli informatici si trovarono a lavorare dovendo dominare contemporaneamente almeno sette sistemi operativi diversi (DPPX, dos, windows 3, windows 95, due versioni di UNIX, OS2 IBM…) in un clima di solitudine oppressiva e quasi di ostilità da parte dei colleghi che opponevano fiera resistenza ad ogni evoluzione e ad ogni richiesta di farsi parte attiva del cambiamento.
Intanto, a peggiorare una situazione già critica, cominciava il turn-over della prima generazione di informatici. A Roma il PAU spariva ed iniziavano le esternalizzazioni, nel silenzio di sindacati sospettabili di collusione, per la “periferia”, a parte un concorso, si continuava a pescare dalla lista dei test psico-attitudinali senza comprendere che non si trattava di una graduatoria di “idonei” e che sotto un certo punteggio esisteva l’inidoneità certificata.
Mi accorsi che molte operazioni qualificanti, demandate al centro, potevano essere compiute in periferia e ne parlai con alcuni interlocutori qualificati. La versione corrente era che non si potessero affidare compiti delicati a persone che “avrebbero fatto danno”, visti gli ultimi ingressi nei CED (sì, ma perché li hanno selezionati?). Ma forse si voleva solo affidare alle società esterne per motivi non sempre chiari l’attività(i progetti avviati intanto fallivano aprendo una ponderosa stagione di scandali con tanto di arresti).
Le esternalizzazioni intanto continuavano, il monopolio IBM-Olivetti-Telecom si sgretolava e si affacciavano alla ribalta sempre più numerosi soggetti esterni, spesso, si dice, nati ad hoc, ai quali veniva affidata la migrazione delle procedure istituzionali da mainframe ad archittettura “client-server”. Questa prima migrazione avveniva affidando a diverse società esterne la riscrittura delle procedure senza che questi soggetti colloquiassero tra di loro. Si arrivò al punto di non poter caricare più procedure sullo stesso pc e all’impossibilità di avere una configurazione standard per tutti i pc, e questo creò problemi logistico organizzativi enormi in periferia, dove, si dovevano rattoppare le carenze centrali con soluzioni subottimali e di corto respiro. Le soluzioni e gli adattamenti per rimediare a quella “sommarietà” romana che poi sarebbe diventata la regola, dipendevano quindi esclusivamente dagli informatici “periferici” sui quali ricadeva l’onere di far funzionare tutto nonostante tutto. I corsi di aggiornamento e i viaggi verso Roma diminuirono fino ad azzerarsi completamente e, in periferia ormai ci si doveva affidare pressoché esclusivamente all’esperienza dei singoli e alla buona volontà.
Finalmente questa fase finì e si arrivo alla migrazione delle procedure su piattaforma web. Nel frattempo i sistemi dipartimentali, i mainframe, erano stati dismessi.
Gli informatici periferici non vennero più rimpiazzati e a quelli rimasti vennero affidati i compiti “residuali”, quello che al netto di qualsiasi eufemismo, si è soliti chiamare “lavoro di merda”. Dequalificazione professionale e demansionamento avanzavano spediti e inesorabili.
I RAPPORTI CON LE SOCIETA’ ESTERNE
Se dal punto di vista sindacale sull’argomento vi sarebbe molto da dire, la scelta di esternalizzare dal punto di vista aziendale è una scelta come un’altra.
Una corretta logica però avrebbe voluto che le società esterne operassero sul territorio coordinate e controllate da nostro personale. Nonostante gli informatici territoriali si relazionassero quotidianamente con le società esterne questo non è avvenuto. Si è preferito, come ho già detto, depauperare un personale altamente qualificato di mansioni e funzioni, ponendolo sullo stesso piano del personale esterno, ferme restando però le responsabilità legate alla “funzione pubblica”. I compiti del personale INAIL sono di fatto diventati indistinguibili da quelli degli addetti esterni, così che taluni lavori rischiano di essere pagati due volte, una volta attraverso il corrispettivo del contratto con la società esterna, un’altra con lo stipendio del funzionario. Nessuno, nemmeno il sindacato, ha fatto chiarezza su questo delicatissimo aspetto.
Al momento attuale, a livello di Direzione Centrale , il rapporto con gli esterni è quello corretto, in quanto questi sono controllati e coordinati dai nostri, mentre il rapporto tra informatici periferici e esterni non lo è. Costoro si permettono di scrivere e telefonare ai nostri funzionari sul territorio impartendo disposizioni di fatto, imponendo scadenze, modalità e metodi come se fossero elementi gerarchicamente sovraordinati. Quando ho scoperto e mi sono opposto al giochetto è stato tutto un piagnucolare e un ricorso alla retorica della “collaborazione”, e del “tavolo di lavoro”, favolette a cui possono credere solo gli ingenui, che tra gli informatici, sono molti.
Un esempio per capire: la gestione della telefonia IP. Quando i telefoni tradizionali vennero sostituiti da telefoni IP nulla funzionava a dovere. Il numero dell’help-desk a cui rivolgersi in caso di malfunzionamenti era (ed è) lo 06 ……….. Ovviamente i colleghi preferivano rivolgersi agli informatici presenti in loco e dovetti affrontare una non facile campagna di persuasione per far sì che si rivolgessero direttamente a chi di dovere, visto che per questo era (è) pagato. Poiché il più delle volte, per risolvere i problema, si doveva eseguire qualche modesta operazione sugli apparecchi telefonici o sugli switch, gli operatori del servizio fonia, dopo aver ricevuto la telefonata dall’utente in difficoltà e preso in carico il problema, constatata l’incapacità di questi di eseguire quelle banali operazioni richieste, telefonavano a noi del CED chiedendo, appunto, “collaborazione”. Alla fine sulla carta figurava che quegli interventi erano stati presi in carico e risolti dalla società esterna preposta (tanto di numero di ticket registrato), mentre il lavoro lo facevamo, per loro, noi funzionari. Quando, polemicamente, scrissi una mail chiedendo copia del contratto al fine di capire se stavo, in quei momenti, lavorando per il mio ente o per una società esterna che non era in grado di far fronte ai sui compiti, visto che le richieste di “collaborazione” erano diventate pressanti e quotidiane, scoppiò il finimondo e il risultato fu che a me non telefonarono più preferendo rivolgersi esclusivamente ad altri collega giudicati più malleabili. A quel punto promossi un’inversione di rotta: invitai i colleghi amministrativi a non comporre più il numero di Roma, ma a rivolgersi nuovamente al CED, insegnai a molti di loro come risolvere i problemi più comuni e feci calare drasticamente il numero dei ticket aperti, se non altro per onorare un principio di realtà.
LA “SPENDING REWIEW” E IL NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO
Il sottotitolo potrebbe essere “cornuti e mazziati”.
Quando il governo Monti, con la “spending review” impose alla amministrazioni dei tagli alla spesa, il nostro ente sempre zelante nei confronti del potere, decise di eliminare gli informatici periferici e di chiudere i CED lasciando solo un “processo informatico” a livello di direzione regionale. Particolarmente zelante e attivo e attento (fino alla petulanza) nel perseguire il nobile obiettivo fu un personaggio di estrazione sindacale pervenuto alle vette dell’ente.
Se dal punto di vista sindacale la chiusura dei CED periferici poteva costituire un problema (risolvibile con i pensionamenti grazie al saggio attendismo strategico dei sindacati e di parte della dirigenza centrale), in una prospettiva di seria riorganizzazione aziendale risponde indiscutibilmente ad una logica di razionalizzazione. Le procedure di lavoro stavano migrando su piattaforma “web”, i server sparivano dai CED e venivano accentrati e “virtualizzati” e i “client” si “alleggerivano”.
Con una buona politica di investimento e riqualificazione delle risorse umane residue, con una esternalizzazione puntuale che prevedesse un rapporto diretto, tramite call center tra utenti amministrativi e società esterne, si sarebbe potuto progettare un percorso virtuoso per conferire agli informatici periferici un ruolo di coordinamento, studio, elaborazione di soluzioni organizzative, funzioni di auditing per orientare la platea degli utenti ad un corretto uso delle risorse informatiche, soprattutto in collaborazione con il professionista della CIT (presente in ogni direzione regionale ma dipendente direttamente da un coordinatore “romano”), sgravandoli del “lavoro di merda”. Si è preferito invece puntare sui “sopravvissuti” per colmare la sommarietà con cui venivano licenziate le novità tecnologiche. E’ come se Una casa automobilistica rilasciasse delle vetture difettose scaricando consapevolmente i problemi su un concessionario privo di mezzi. Insomma, funzionari apicali trasformati in ordinari sbrigafaccende privi di strumenti a disposizione di chiunque per risolvere i problemi più disparati all’interno di una catastrofe organizzativa ormai endemica sulla quale sarebbe opportuno accendere dei potenti riflettori a vari livelli.