Licenziamento – reintegra – ferie – spettano. Corte di Giustizia Europea Sentenza del 25/6/2020 Prima Sezione – Cause riunite C-762/18 e C-37/19

Le ferie si maturano anche in caso di licenziamento illegittimo.

 Lo afferma la Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

La decisione ha ad oggetto un licenziamento illegittimo che determina la reintegra del lavoratore il quale essendo rimasto forzatamente assente chiede il riconoscimento del periodo di ferie maturate dalla data del recesso e la reintegrazione, sul presupposto che detto periodo debba a tutti gli effetti essere riconosciuto quale periodo di effettivo lavoro.
A tale riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in caso di licenziamento, successivamente dichiarato illegittimo, le ferie maturate nel periodo compreso tra il recesso e la reintegrazione del dipendente nel suo posto di lavoro, deve essere assimilato ad un periodo di lavoro effettivo ai fini della determinazione delle ferie maturate o in alterativa, laddove per qualsivoglia ragione non possa fruirne, ad un’indennità sostitutiva delle stesse. Ciò in quanto, non avere potuto svolgere la propria prestazione, rientra tra i motivi indipendenti dalla volontà del dipendente.

CRISI DI IMPRESA E RIFLESSI SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO SECONDO IL NUOVO CODICE D’IMPRESA E DELL’INSOLVENZA (D.lgs n. 14/2019)

  1. Il lavoro subordinato ai tempi della nuova normativa (D.lgs n.14/2019); 2. Definizione di “crisi d’impresa” secondo Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I) e l’incidenza sul rapporto di lavoro subordinato; 3. Tra le novità più rilevanti del nuovo C.C.I.I: le procedure di allerta; 4. Le sorti del rapporto di lavoro in caso di liquidazione giudiziale; 5. Perdita involontaria dell’occupazione e trattamento NASpI; 6. Trasferimento d’azienda o di un ramo d’azienda.

 

  1. IL LAVORO SUBORDINATO AI TEMPI DELLA NUOVA NORMATIVA (D.LGS N.14/2019)

L’art. 2094 C.C. definisce la figura del prestatore di lavoro subordinato come colui che “si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Da tale nozione si ricava la struttura del rapporto di lavoro subordinato ovvero quando un soggetto (il lavoratore dipendente o prestatore di lavoro subordinato) svolge un’attività, stabilita per contratto, nell’interesse di un altro soggetto (il datore di lavoro o imprenditore), rispetto al quale si colloca in una posizione subordinata, in cambio della retribuzione.

Tutte le regole normative del rapporto tra lavoratori dipendenti e datore di lavoro sono contenute nel contratto di lavoro e nella legge, per cui si applicano le regole stabilite dal codice civile in materia di contratti in generale, nonché la specifica normativa del rapporto di lavoro, salvo diversamente disposto. Si ha quindi, un contratto individuale di lavoro, se il contratto è stipulato tra un datore di lavoro (persona fisica o persona giuridica) e un lavoratore (persona fisica). Contestualmente il rapporto può essere regolato anche da un contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) quando si aggiunge alla disciplina individuale, il contratto derivante da un accordo tra i sindacati maggiormente rappresentativi della categoria e le associazioni dei datori di lavoro.

Il contratto di lavoro è definito come un contratto di durata perché i suoi effetti ed obblighi sono destinati a perdurare per un certo lasso di tempo, quindi vi deve essere una continuità del rapporto, da non confondersi però con la continuità della prestazione lavorativa; spesso, quando si parla di lavoro subordinato, ci si riferisce generalmente a un contratto di lavoro a tempo pieno e indeterminato (che non prevede pertanto una scadenza), ma di per sé la prestazione non è continua in senso assoluto in quanto destinata a soste ed interruzioni che fanno comunque restare in vita il rapporto.

Può accadere quindi, nel corso dell’esecuzione e quindi della durata del contratto, e delle relative obbligazioni, che l’impresa si trovi in difficoltà nel mantenere la continuità del rapporto. In altre parole, può verificarsi la crisi dell’impresa. La situazione di difficoltà economica può essere tale da comportare in extremis la cessazione dell’attività dell’impresa con la conseguente crisi dei rapporti di lavoro, o addirittura con l’espulsione dell’impresa dal mondo produttivo, con la conseguenza che il lavoratore dipendente rischia di ritrovarsi senza occupazione. Le sorti dei  di rapporti di lavoro ancora pendenti o meglio in forse non era contempla in maniera adeguata dalle vigenti normative in tema di crisi di impresa.

In sostanza, il diritto fallimentare non aveva adeguati ed espliciti collegamenti con il diritto del lavoro.

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (C.C.I.I), introdotto dal D.lgs n.14/2019, ha finalmente previsto una disciplina ad hoc per le procedure concorsuali, la quale che sostituito la preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), raccordando così la disciplina dell’insolvenza con quella del rapporto di lavoro.

Prima di arrivare alla cessazione dell’attività, la quale deve rappresentare come ultimo strumento a cui ricorrere, il nuovo Codice crea un sistema atto a prevenire lo stato di crisi dell’azienda con il risultato di sviluppare un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa, infatti tra le novità più rilevanti vi è l’introduzione delle procedure di allerta.

In questa prospettiva, viene formulata una nuova definizione di “crisi d’impresa”, ex art. 2, lett. a) C.C.I.I definita come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore”. Una definizione che ha lo scopo di prevenire la crisi, cercando il più possibile di conservazione l’attività aziendale e quindi di conseguenza l’occupazione.

Per una maggiore tutela dei lavoratori dipendenti coinvolti nella crisi, uno degli articoli fondamentali è l’articolo 189 C.C.I.I, il quale dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento”. La ratio è quella di mantenere i rapporti di lavoro pendenti, ma solo nel caso di subentro ovvero ove sia possibile la prosecuzione o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, diversamente è previsto che il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti.

In quest’ultimo caso, il lavoratore dipendente che perde l’occupazione è comunque tutelato dalla nuova normativa, infatti l’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto, in quanto ci troviamo di fronte ad una perdita involontaria dell’occupazione dovuta all’apertura della liquidazione giudiziale.

 

  1. DEFINIZIONE DI “CRISI D’IMPRESA” SECONDO LA NUOVA NORMATIVA (D.lgs n. 14/2019) E L’INCIDENZA SUL RAPPORTO DI LAVORO SUBORDINATO

Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (C.C.I.I) è stato emanato con il D.lgs n. 14/2019 e porta con sé una riforma organica per quanto concerne la disciplina delle procedure concorsuali, la quale era contenuta nella preesistente legge fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267).

A differenza della legge precedente, la quale disciplinava il fallimento  in un’accezione prevalentemente punitiva in quanto l’imprenditore dichiarato fallito doveva essere estromesso dal mercato, con la  conseguente  liquidazione della sua attività, la riforma del 2019 invece è maggiormente orientata a una definizione finanziaria prospettica o preventiva di crisi, con il fine  di individuare prontamente l’eventuale “stato di insolvenza futuro” (rectius crisi) per consentire un intervento risolutivo, volto in primo luogo alla conservazione dell’attività produttiva.

Si comprende come la cessazione dell’attività debba rappresentare l’ultimo strumento a cui ricorrere, solo quando non vi sono altri rimedi possibili. Si sostituisce infatti il termine “fallimento” con quello nuovo ovvero “liquidazione giudiziale”, non solo, ma oggi abbiamo una nuova nozione di “stato di crisi” , ex art. 2, lett. a) C.C.I.I, è “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate” , differenziandosi pertanto dall’insolvenza ossia (ex art. 5 L.F., ora art. 2 del D.lgs n.14/2019), quello stato che “si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”.

Il carattere preventivo del richiamato decreto è il punto chiave della riforma ovvero la conservazione dell’attività aziendale che determina grazie anche al collegamento normativo previsto dall’articolo 189  C.C.I.I ,  una maggiore tutela dei lavoratori coinvolti nella crisi.

Sono infatti,  proprio gli articoli 189, 190 e 191 C.C.I.I. che affrontano i riflessi della liquidazione giudiziale e del trasferimento dell’azienda sui rapporti di lavoro.

Per raggiungere tale obiettivo, tra le novità più rilevanti, vi è l’introduzione delle c.d procedure di allerta. Oltre ad esse, vi sono ulteriori modifiche agli strumenti di risoluzione della crisi già esistenti con l’intento del legislatore di facilitarne l’accesso. L’obiettivo del nuovo codice è, inoltre, quello di adeguare il nostro Paese alle norme di altri Stati europei, cercando di fornire strumenti adeguati ad anticipare l’eventuale crisi aziendale e limitarne il più possibile il suo aggravarsi.

 

  1. TRA LE NOVITÀ PIÙ RILEVANTI DEL NUOVO C.C.I.I: LE PROCEDURE DI ALLERTA

Il nuovo Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza introduce le c.d procedure di allerta.

In tali procedure, sia gli organi di controllo societario sia i creditori pubblici qualificato hanno l’obbligo di segnalare, ex art 13 C.C.I.I, “gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario, rilevabili attraverso appositi indici che diano evidenza della sostenibilità dei debiti per almeno i 6 mesi successivi e delle prospettive di continuità aziendale…” allo scopo di rilevare tempestivamente lo stato di crisi.

Nella fase interna della procedura, si cerca di creare un sistema capace di prevenire lo stato di crisi dell’azienda, mediante una maggiore responsabilizzazione del debitore e degli organi di governance, dando così all’azienda in difficoltà, la possibilità di evitare la crisi. Il risultato è lo sviluppo di un meccanismo di monitoraggio dall’interno dell’impresa.

Nella fase esterna invece, qualora non si riesca ad adottare misure riorganizzative dell’impresa per superare la crisi dall’interno, nonostante le segnalazioni degli organi di controllo e dei creditori pubblici qualificati, ci si rivolge all’Organismo per la Composizione assistita della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

Gli organi di controllo societario, ossia il revisore contabile o la società di revisione, hanno l’obbligo di segnalare immediatamente all’organo amministrativo della società l’esistenza di fondati indizi della crisi.

Entro 30 giorni, l’organo amministrativo deve, a sua volta, sottoporre agli organi di controllo le soluzioni individuate e le iniziative intraprese per il superamento della crisi. Nel caso in cui gli amministratori, nei successivi 60 giorni non forniscano risposta o una inadeguata o ancora, non adottino i provvedimenti individuati per il superamento della crisi, gli organi di controllo hanno l’obbligo di rivolgersi all’Organismo per la Composizione della Crisi aziendale (OCRI) per l’avvio della procedura di composizione assistita della crisi.

I creditori pubblici qualificati, ossia Agenzia delle Entrate, INPS e l’Agente della riscossione delle imposte, hanno l’obbligo di comunicare al debitore che la sua esposizione ha superato determinate soglie di rilevanza, invitandolo a regolarizzare o sanare l’esposizione debitoria nei 90 giorni successivi. Decorso i 90 giorni, se l’esposizione debitoria rimane rilevante, i creditori pubblici qualificati hanno l’obbligo di segnalare all’OCRI. Qualora i creditori pubblici non adempiano all’obbligo di comunicazione posto a loro carico, per l’agenzia delle entrate e Inps determina la perdita del titolo di prelazione spettante sui crediti di cui sono titolari e, per l’Agente della riscossione delle imposte, l’inopponibilità del credito per spese ed oneri di riscossione.

Da segnalare che l’imprenditore deve sostanzialmente dotarsi di un efficace sistema di controllo di gestione interno, altrimenti, egli rischia di essere imputato del c.d reato di “bancarotta da aggravamento” introdotto dalla nuova disciplina. In altre parole, si va a punire penalmente il titolare reputato inerte in quanto non ha adottato un assetto organizzativo, amministrativo e contabile capace di rilevare tempestivamente gli indizi di crisi e di prevenirne.

Infine, se è l’impresa in crisi a presentare l’istanza di composizione assistita della crisi, il referente dell’OCRI ne dà notizia agli organi di controllo dell’impresa in crisi e ai creditori pubblici qualificati della loro mancata segnalazione, esonerandoli dall’obbligo di segnalazione per tutta la durata del procedimento di composizione assistita della crisi.

Sempre nell’articolo 13 C.C.I.I, sono contenuti gli appositi indicatori di crisi dell’impresa e si delega il CNDCEC (Consiglio Naz. Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili) di individuarli tenendo conto della migliore prassi nazionale ed internazionale. Nel caso in cui un’impresa dovesse ritenere inadeguati gli indici elaborati dal CNDCEC può specificare le ragioni nella nota integrativa al bilancio di esercizio, indicandone invece quelli più idonei a far ragionevolmente presumere la sussistenza del suo stato di crisi. Un professionista indipendente attesta l’adeguatezza di tali indici in base alle caratteristiche specifiche dell’impresa.

In ogni modo l’avvio del meccanismo di allerta non costituisce una causa di risoluzione dei contratti pendenti e dunque neppure di quello di lavoro.

 

  1. LE SORTI DEL RAPPORTO DI LAVORO IN CASO DI LIQUIDAZIONE GIUDIZIALE

Uno dei punti chiavi, concernenti i riflessi della liquidazione giudiziale sul rapporto di lavoro, è, come abbiamo già notato, l’art. 189 C.C.I.I, il quale l dispone che “l’apertura della liquidazione giudiziale nei confronti del datore di lavoro, non costituisce di per sé motivo di licenziamento. I rapporti di lavoro subordinato in atto alla data della sentenza dichiarativa vengono sospesi fino a quando il curatore, con l’autorizzazione del giudice delegato, sentito il comitato dei creditori, comunica ai lavoratori di subentrarvi, assumendo i relativi obblighi, ovvero il recesso”.

In altre parole, i rapporti di lavoro potranno proseguire, ma solo nel caso in cui sia possibile la prosecuzione con la curatela o il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo. Siamo dinanzi a un caso di subentro che ha efficacia dalla relativa comunicazione al lavoratore. Qualora non sia possibile subentrare nel rapporto di lavoro in essere, il curatore può procedere al recesso dei rapporti di lavoro pendenti. In quest’ultimo caso, il recesso ha efficacia retroattiva, pertanto produce i suoi effetti dalla data di apertura della liquidazione giudiziale.

L’189, comma 3, C.C.I.I affronta pure l’ipotesi di una eventuale inerzia del curatore, prevedendo una ipotesi di risoluzione di diritto dei rapporti di lavoro, infatti esso dispone che “decorso il termine di quattro mesi dalla data di apertura della liquidazione giudiziale senza che il curatore abbia comunicato il subentro, i rapporti di lavoro subordinato, che non siano già cessati, si intendono risolti di diritto con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale”.

Qualora il curatore ritenga che vi siano invece delle possibilità di ripresa o trasferimento a terzi dell’azienda o di un suo ramo, può proporre istanza al giudice delegato, per chiedere una proroga del termine di quattro mesi. Tale istanza può essere presentata anche dai singoli lavoratori, ma in tal caso la proroga ha effetto solo nei confronti dei lavoratori istanti. In ogni modo, il giudice delegato non può assegnare al curatore un termine superiore a otto mesi per comunicare le sue decisioni.

Scaduto il termine prorogato, ove il curatore non proceda al subentro o al recesso, i rapporti di lavoro subordinato ancora pendenti, si intendono risolti di diritto, con decorrenza dalla data di apertura della liquidazione giudiziale. In questo caso, è prevista in favore del lavoratore il diritto ad ottenere un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due e non superiore a otto mensilità per ogni anno di servizio. Indennità che è ammessa al passivo come credito successivo all’apertura della liquidazione giudiziale, pertanto si configura come credito prededucibile.

 

  1. PERDITA INVOLONTARIA DELL’OCCUPAZIONE E TRATTAMENTO NASpI

L’art. 189, comma 5, C.C.I.I prevede che, trascorsi 4 mesi dall’apertura della liquidazione giudiziale, le eventuali dimissioni rese dal lavoratore si intendono rassegnate per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 C.C. con effetto dalla data di apertura della liquidazione.

Nel caso di recesso del curatore, di licenziamento, dimissioni o risoluzione di diritto, l’art. 189 C.C.I.I riconosce in ogni caso al lavoratore con rapporto a tempo indeterminato l’indennità di mancato preavviso e il trattamento di fine rapporto (TFR). Essi sono riconosciuti come crediti anteriori all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo, pertanto si configurano come crediti privilegiati ex art. 2751-bis C.C. e non come crediti successivi ossia crediti prededucibili.

L’art. 189 e l’art. 190 C.C.I.I riconoscono al lavoratore il c.d. contributo NASpI, previsto dall’art. 2, comma 31, L. n. 92/2012 che è dovuto anche in caso di risoluzione di diritto.

Si precisa però, ex art. 189, comma 8, C.C.I.I che il contributo NASpI è ammesso al passivo come credito anteriore all’apertura della liquidazione giudiziale ai fini dell’ammissione al passivo.

La cessazione del rapporto di lavoro in caso dell’apertura della liquidazione giudiziale costituisce perdita involontaria dell’occupazione, ex art. 190 C.C.I.I, pertanto il lavoratore ha il diritto al trattamento NASpI, ma devono sussistere i requisiti elencati dal D.lgs. n. 22/2015.

 

  1. TRASFERIMENTO D’AZIENDA O DI UN RAMO D’AZIENDA

Da un punto visto giuslavoraristico, il trasferimento dell’azienda in crisi è sempre stato una materia complessa. Per una sua comprensione, in linea generale, è bene partire dalle fonti normative principali che lo riguardano: l’art. 2112 C.C. disciplina in modo generale la fattispecie; l’art. 47 della l. n. 428/1990 adatta la disciplina generale nel caso del trasferimento dell’azienda in crisi e l’introduzione con l. n. 166/2009 del comma 4 – bis nell’art. 47  definisce condizioni e casi di deroga alla disciplina dell’art. 2112 C.C. da parte di accordi sindacali stipulati per far fronte a qualificate situazioni di difficoltà delle aziende.

L’articolo 47 della legge 29.12.1990 n.428 prevede al comma 4 – bis che sarà sostituito dal nuovo testo quanto segue:

4-bis. Nel caso in cui sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento, anche parziale, dell’occupazione, l’articolo 2112 del codice civile trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo medesimo qualora il trasferimento riguardi aziende:

  1. a) delle quali sia stato accertato lo stato di crisiaziendale, ai sensi dell’articolo 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675;
  2. b) per le quali sia stata disposta l’amministrazione straordinaria, ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell’attività 

b-bis) per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo;

b-ter) per le quali vi sia stata l’omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti .

  1. Qualora il trasferimento riguardi o impresenei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile, salvo che dall’accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest’ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell’alienante .
  2. I lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente, dell’affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall’acquirente, dall’affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d’azienda, non trova applicazione l’articolo 2112 del codicecivile.”

Proprio questo testo del  comma 4 – bis ha sollevato dubbi sulla sua conformità con la direttiva 2001/23/CE, la quale è diretta a proteggere i lavoratori, promuovendo il ravvicinamento, senza però un’armonizzazione completa, delle legislazioni nazionali al fine di assicurare il mantenimento dei loro diritti in caso di trasferimento d’impresa, salvo i casi in cui non ricadono in una delle eccezioni espressamente previste dalla stessa direttiva.

A tale riguardo, il nuovo Codice della crisi dell’impresa e dell’insolvenza, meglio conosciuto come D.lgs 12/01/2019 n. 14, ha introdotto l’art. 368, comma 4, lett. b) che regolerà la materia esaminata a partire dal 1 settembre 2021.

Due saranno le innovazioni previste dal nuovo Codice rispetto all’attuale comma 4 – bis: la prima prevede delle modifiche all’elencazione delle situazioni in cui l’azienda deve trovarsi perché l’accordo sindacale sia legittimato a prevedere deroghe alla disciplina dettata dall’art. 2112 C.C.; la seconda riguarda gli effetti destinati ad accompagnare l’accordo raggiunto a conclusione della consultazione sindacale.

In pratica, come vedremo, le deroghe all’applicazione integrale dell’articolo 2112 del codice civile sono graduate progressivamente nei singoli comma in crescendo con la natura liquidatoria della procedura.

Il comma 4 bis stabilisce che qualora si raggiungano accordi sindacali oer la salvaguardia dell’occupazione e quindi in caso di apertura di concordato preventivo, omologazione di accordi per la ristrutturazione di debiti, amministrazione straordinaria e quindi procedure non aventi carattere liquidatorio rimane fermo in caso di cessione di azienda il trasferimento dei rapporti di lavoro ex articolo 2112 del codice civile con possibilità di derogare al 2112 mediante accordi sindacali per quanto attiene le condizioni di lavoro.

Quindi, il comma 4-bis precisa espressamente che rimane fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, e non si applicano le deroghe dell’art. 2112 C.C. per quanto riguarda la continuità dei rapporti in capo all’azienda cessionaria; mentre è possibile derogare la disciplina dell’art. 2112 C.C.  per le condizioni di lavoro dei dipendenti, come l’anzianità o i trattamenti retributivi.

Si comprende che la ratio del comma 4 – bis è quella di limitare le deroghe all’articolo 2112 codice civile mediante gli accordi sindacali, al fine di operare in linea con le regole della direttiva 2001/23/CE.

Il successivo comma 5 riguarda le procedure aventi carattere liquidatorio  e qui nel caso di cessione di azienda in tal caso mediante accordi collettivi, possono essere derogati i commi 1,3 e 4 del codice civile, con possibilità di deroga anche tramite  accordi individuali

Il comma 5 ter invece, riguarda le aziende sottoposte ad amministrazione straordinaria , senza continuazione dell’attività, allorquando sia  raggiunto un accordo anche parziale per il mantenimento dell’occupazione  ai lavoratori il cui rapporto continua con l’acquirente non trova applicazione l’articolo 2112 del codice civile.

 

Lili Liu – studentessa Facoltà di Giurisprudenza Università di Trieste

Un nuovo intervento della Corte Costituzionale in tema di licenziamenti

La Corte costituzionale, riunita oggi in camera di consiglio, ha esaminato la
questione di legittimità sollevata dal Tribunale di Ravenna sull’articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, come modificato dalla cosiddetta legge Fornero (n. 92 del
2012), là dove prevede la facoltà e non il dovere del giudice di reintegrare il
lavoratore arbitrariamente licenziato in mancanza di giustificato motivo oggettivo.
La Corte ha ritenuto che sia irragionevole ² in caso di insussistenza del fatto – la
disparità di trattamento tra il licenziamento economico e quello per giusta causa: in
questo caso,spetta alla discrezionalità del giudice la scelta tra la stessa reintegra e la corresponsione di
un risarcimento.
Le motivazioni della sentenza saranno depositate nelle prossime settimane.
Roma, 24 febbraio 2021