WEBINAR – Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego

Giovedì 23 giugno 2022, dalle 10.00 alle 12.00, l’avv. Petracci sarà relatore del webinar:

Decreto PNRR 2 (D.L. 36/22) e Riforma del Pubblico Impiego
Tutte le novità in materia di reclutamento, concorsi, fabbisogni del personale e codice di comportamento dei dipendenti

Durante la sessione affronterà in diretta tutti gli argomenti indicati nel programma, risponderà ai quesiti pervenuti e approfondirà le tematiche segnalate dai partecipanti.

L’obiettivo di questo webinar è fornire gli strumenti per attuare tutte le novità, in tema di pubblico impiego, introdotte dal PNRR 2 (D.L. 36/2022).

Saranno analizzate, punto per punto, le nuove disposizioni, con particolare attenzione a:

  • Programmazione dei fabbisogni e nuovi profili professionali
  • Reclutamento e possibilità di assunzione: novità
  • Nuove regole per i concorsi e portale unico del reclutamento inPA
  • Novità in tema di codice di comportamento dei dipendenti pubblici sui social
  • Parità di genere e vantaggi specifici per i generi meno rappresentati
  • Novità in tema di passaggi diretti e distacchi, concorsi e procedure di mobilità
  • Modifiche al decreto-legge 80/2021, applicazione a regioni ed enti locali
  • Incarichi professionali al personale in quiescenza: novità

La registrazione video del Webinar sarà disponibile entro 24 ore dalla conclusione.

Per informazioni sulle modalità di iscrizione si rimanda alla seguente pagina di riferimento della Professional Ac@demy.

CASSAZIONE – Quando è legittimo il licenziamento per impossibilità di destinare il lavoratore a mansioni diverse.

Cassazione Civile 01386/22

Una lavoratrice addetta a mansioni di arredatrice era licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione della sua posizione lavorativa attuata dall’azienda prima che ne avvenisse il fallimento.

Il Tribunale fallimentare di Roma sul presupposto che in sede conciliativa il datore di lavoro aveva offerto alla lavoratrice occupazione con l’inferiore mansione di addetta alle vendite, che quest’ultima non aveva accettato, rispinge la domanda volta ad ottenere l’insinuazione nel passivo del risarcimento per il licenziamento illegittimo.

La Corte di Cassazione adita dalla lavoratrice decide invece diversamente.

Il giudice di legittimità sostiene come competa al datore di lavoro la prova dell’impossibilità di occupare diversamente il lavoratore.

Nel caso di specie, ritiene la Corte, la sentenza del Tribunale si è basata esclusivamente su di un fatto accaduto dopo il recesso e comunque senza fosse stata fornita la prova dei fatti su cui si basava la pretesa incollocabilità della lavoratrice.

Avvocato Fabio Petracci.

Articolo 18 ed ipotesi di reintegra. Gli ultimi interventi della Consulta e della Suprema Corte.

Licenziamento disciplinare illegittimo.
Contratto collettivo prevede sanzione conservativa.
Cassazione Sezione Lavoro 25.11.2021 n.36729.

L’articolo 18 quarto comma della legge 300/70 riconosce il diritto alla reintegra del lavoratore licenziato nel caso di insussistenza del fatto contestato.
Ciò avviene nel caso in cui non sussista proporzionalità alcuna tra la sanzione ed il fatto contestato, sia allorquando la contrattazione collettiva preveda per il caso contestato l’applicazione di una sanzione conservativa.
Interessante sul punto, Cassazione Sezione Lavoro 15 dicembre 2020 n.28630 in Il Lavoro nella giurisprudenza n.10, 1 ottobre 2021,p.943 con nota di Francesca Nardelli.
Come notato dall’autrice, la Corte di Cassazione con una pronuncia quanto mai sintetica affronta il tema della rilevanza da attribuire al fatto contestato ai fini del licenziamento disciplinare, nonché sulla valutazione giudiziale delle tipizzazioni contrattuali, nel caso in cui sia accertata l’illegittimità del licenziamento per irrilevanza disciplinare della condotta ed il CCNL preveda per la fattispecie contestata una mera sanzione conservativa.
Nel caso in commento, la Corte di Cassazione confermava l’illegittimità del licenziamento ed il conseguente diritto alla reintegra sul presupposto in base al quale la fattispecie contestata in base al CCNL era risultata suscettibile della sola sanzione conservativa.
La Corte di Cassazione, nella valutazione del fatto addebitato al lavoratore, ha aderito invece all’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui “l’insussistenza del fatto materiale va intesa come fatto disciplinarmente rilevante consistente in un comportamento astrattamente inadempiente corrispondente a quello considerato nella disposizione del codice disciplinare su cui di fonda la contestazione disciplinare elevata”.
Prevale in questo caso, l’indirizzo già prevalente nella giurisprudenza circa l’esatta portata da attribuire dopo le recenti riforme (Fornero e Jobs Act) all’espressione “insussistenza del fatto” ai fini della reintegrazione del lavoratore sul posto di lavoro.
In un primo momento, la tutela consistente nella reintegra era limitata al solo caso dell’insussistenza sul piano materiale dell’addebito contestato.
Quindi il giudice avrebbe dovuto esclusivamente accertare sul piano fenomenologico l’esistenza del fatto contestato.
In questo orientamento alcuni dei principali autori ( Persiani, Maresca, Vallebona).
Di seguito la giurisprudenza di legittimità ha fornito un diverso indirizzo chiarendo come l’insussistenza del fatto contestato comprenda anche le ipotesi della sussistenza materiale dello stesso priva però di valenza disciplinare (Cassazione n.20540/2015).
Di seguito, il legislatore mediante l’articolo 3 del DLGS 23/2015 aggiungeva alla parola “fatto contestato” il termine “materiale”.
Interveniva di seguito la pronuncia n.12174 del 2019 della Cassazione che ribadiva le conclusioni già prima assunte conferendo all’espressione insussistenza materiale del fatto contestato il significato di fatto non avente rilievo disciplinare ai fini del recesso.
Va notato inoltre che di recente la Corte Costituzionale con sentenza 1.4.2021 n.59 ha ritenuto confliggere con diverse disposizioni costituzionali e comunitarie il settimo comma dell’articolo 18 legge 300/70 nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo possa e non debba disporre la reintegrazione del lavoratore.
Fabio Petracci

Sanzioni disciplinari pubblico impiego scuola. Dirigente competenza ad irrogare la sanzione. Individuazione in base alla sanzione edittale.

Cassazione 14.7.2021 n.20059.

 

Sintesi della pronuncia.

La Cassazione ribadendo quanto già affermato dalla medesima suprema Corte con la sentenza n.28111 del 2019 ha stabilito che in tema di sanzioni disciplinari nel pubblico impiego privatizzato, al fine di stabilire la competenza dell’organo deputato a iniziare, svolgere e concludere il procedimento, occorre avere riguardo al massimo della sanzione disciplinare come stabilita in astratto, in relazione alla fattispecie legale, normativa o contrattuale che viene in rilievo, essendo necessario, in base ai principi di legalità e del giusto procedimento, che la competenza sia determinata in modo certo, anteriore al caso concreto ed oggettivo, prescindendo dal singolo procedimento disciplinare.

 

Sintesi della motivazione.

L’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 nel testo anteriore a quello novellato con il DLGS 75/2017 prevedeva la ripartizione di competenza per l’irrogazione delle sanzioni disciplinari.

Per le infrazioni per le quali era prevista l’irrogazione della sanzione del rimprovero verbale, il procedimento era di competenza del responsabile della struttura dove prestava servizio il dipendente.

Diversa era invece la normativa disciplinare per il personale docente della scuola.

Nel testo dell’articolo 55 bis anteriore alla riforma di cui al DLGS 165/2001, era prevista la competenza del dirigente ad irrogare la sanzione della sospensione per le fattispecie che non superavano i dieci, nel mentre sussisteva la competenza dell’apposito Ufficio Disciplinare per le fattispecie che nella previsione contrattuale o di legge superavano i dieci giorni di sospensione.

Il caso specifico della scuola.

Nell’ambito della scuola, per il personale docente non era prevista la sanzione della sospensione pari a 10 giorni ed era comunque vigente il DLGS 297/94 che all’articolo 492 del DLGS 297/94 prevedeva la sanzione della sospensione fino a 30 giorni.

In alcuni casi, i dirigenti scolastici, opinando di poter irrogare una sanzione inferiore ai 10 giorni si erano assunti la relativa competenza disciplinare.

Numerose sentenze dei giudici del lavoro hanno annullato le sanzioni, ritenendo che la competenza andava rapportata al termine massimo di 30 giorni previsto dalla legge e che quindi era da ritenersi competente all’irrogazione della sanzione esclusivamente l’ufficio dell’amministrazione scolastica individuato in base al comma 4 dell’articolo 55 bis (ufficio per i procedimenti disciplinari) e non il dirigente scolastico d’istituto.

La situazione attuale.

Con l’entrata in vigore del DLGS 75/2017, tutte le sanzioni, eccettuato il richiamo scritto, passano alla competenza dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari.

In tal modo, il dirigente di istituto sarebbe stato privato di qualunque significativo potere disciplinare.

In realtà il DLGS 75/2017 è intervenuto con l’articolo 13 comma 9 quater che prevede che per il personale docente, educativo, e amministrativo tecnico e ausiliario, il provvedimento disciplinare per il quale è prevista l’irrogazione di sanzioni fino alla sospensione dal servizio per dieci giorni è di competenza del responsabile della struttura con qualifica dirigenziale, restando le sanzioni superiori di competenza dell’Ufficio competente per i Procedimenti disciplinari.

In conclusione.

La decisione della Corte di Cassazione impone la determinazione della competenza ad irrogare la sanzione sulla base della sanzione prevista dai contratti o dalla legge e non da quella ipotizzabile dall’ufficio o ancor peggio da quella ex post irrogata.

Quindi anche la determinazione della sanzione sarà in qualche modo condizionata dalla competenza prescelta dal datore di lavoro.

Si vuole in questo modo, aderendo al principio costituzionalmente ribadito del giusto processo evitare la scelta arbitraria dei soggetti competenti ad irrogare la sanzione.

La pronuncia assume particolare importanza nel settore della scuola, laddove è comunque riservata al dirigente scolastico una rilevante quota di potere disciplinare con competenza sino a dieci giorni di sospensione.

Fabio Petracci.

Cassazione Sezione Lavoro , sentenza n.14198 del 24.5.2021. Licenziamento collettivo – violazione dei criteri di scelta – Interesse ad agire – necessità – il lavoratore deve dimostrare che qualora fosse stato adottato un criterio corretto, non si sarebbe pervenuti al suo licenziamento –

La Corte di Cassazione di fronte all’effettiva violazione dei canoni di scelta dei lavoratori da licenziare, ha ritenuto che, in caso di violazione dei criteri di scelta, l’annullamento non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati, bensì solo da chi non sarebbe stato ricompreso nella platea dei destinatari dell’atto espulsivo ove la violazione non fosse stata realizzata. Ciò perché l’azione di annullamento, a differenza di quella di nullità, presuppone un interesse qualificato e richiede che il vizio abbia avuto incidenza determinante nell’adozione dell’atto contestato.

La decisione appare in linea con precedenti decisioni di cui la più recente Cassazione Sezione Lavoro 10.12.2020 n.9828 che ha ritenuto inammissibile per difetto di interesse, il motivo di impugnazione con il quale era dedotta la violazione di norme giuridiche prive di qualsivoglia influenza in relazione alle domande proposte.

Nello specifico, la Corte riteneva come l’invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientrava nel novero delle annullabilità ex articolo 1441 del codice civile comma 1 e non in quello delle nullità, per cui, l’azione per l’annullamento può essere proposta non da chiunque, ma soltanto da coloro che abbiano subito un pregiudizio diretto in ragione della violazione.

Dello stesso tenore, la precedente Cassazione 1.12.2016 n.24558 che censurava una decisione del giudice di merito il quale di fronte ad una violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo, aveva escluso l’applicazione della cosiddetta “prova” di resistenza, argomentando per la connotazione pubblicistica della legislazione in materia.

La decisione si fonda sulla diversità degli istituti della nullità (articolo 1421 del codice civile) dove l’azione di nullità compete a chiunque vi abbia interesse, e di annullamento la cui legittimazione ad agire (articolo 1441 compete esclusivamente a chi sia previsto dalla legge titolare dell’interesse ad agire.

Fabio Petracci.

 

Pubblico Impiego – Sanzioni Disciplinari. Ufficio Procedimenti disciplinari.

Cassazione n.13911/2021

Il titolare può delegare ad altri dipendenti addetti alla struttura amministrativa dell’ufficio l’attività di istruttoria disciplinare, in quanto le competenze del titolare l’UPD restano circoscritte alle attività valutative r deliberative.

Lo afferma la Corte di cassazione con la sentenza n.13911/2021.

La Corte ha affermato che le norme sulla competenza non vanno confuse con le regole del procedimento per cui, ove risulti che quest’ultimo sia stato, comunque, gestito dal soggetto cui è attribuito il potere disciplinare, non ogni difformità rispetto alla previsione normativa, produce la nullità della sanzione, la quale è invece configurabile solo qualora l’interferenza di organi esterni all’UPD abbia determinato in senso decisivo e sostitutivo la compartecipazione di soggetto estraneo all’ufficio con conseguente ed inammissibile sostanziale trasferimento della competenza ad un diverso organo non competente ( Cassazione 11632/2016).

Va anche notato come gli atti del procedimento disciplinare siano ormai espressione di un potere privatistico del datore di lavoro (Cassazione 14200/2018) non avendo gli stessi natura amministrativa e non operando quindi i principi che in relazione agli atti autoritativi limitano la delega di funzioni.

L’istituzione dell’Ufficio per i Procedimenti disciplinari è sancita dall’articolo 55 bis del DLGS 165/2001 con il DLGS 75/2017 (Decreto Madia) la competenza dell’ufficio e quindi la sua necessaria partecipazione al procedimento disciplinare è stata estesa a tutte le procedure disciplinari ad eccezione di quelle dove è prevista la sanzione del rimprovero verbale.

Il comma 2 del DLGS 165/2001 prevede che ciascuna amministrazione nell’ambito della propria organizzazione è tenuta ad individuare l’ufficio per i procedimenti disciplinari per le infrazioni punibili con sanzione superiore al rimprovero verbale, attribuendone apposita titolarità e responsabilità.

Di fronte alle evidenti difficoltà per i piccoli enti soprattutto locali, la legge articolo 55 bis comma 3 prevede che le amministrazioni, previa convenzione, possono prevedere la gestione unificata delle funzioni dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, senza maggiori oneri per la finanza pubblica.

La recente sentenza della Corte di Cassazione trova avvallo anche in precedente pronuncia della Corte stessa (Cassazione n.14200/2018).

Quest’ultima stabilisce che Nel pubblico impiego contrattualizzato, il titolare dell’ufficio dei procedimenti disciplinari può delegare a dipendenti esterni allo stesso il compimento di atti istruttori, facendone propri i risultati, purché detti atti non abbiano contenuto valutativo o decisorio ed il soggetto delegato offra garanzia di terzietà ed imparzialità, non essendo gli stessi soggetti ai limiti della delega di funzioni in quanto espressione del potere privatistico del datore di lavoro e non di quello pubblicistico.

Sempre in tema di Ufficio per i Procedimenti Disciplinari, Cassazione 9.1.2019 n.271 ha ritenuto come non sia necessaria la costituzione ex novo ed in maniera espressa di un ufficio destinato ai procedimenti disciplinari, essendo sufficiente che all’organo che ha inflitto la sanzione siano stati ufficialmente riconosciuti i relativi poteri e che esso garantisca idonea terzietà.

Nel caso di identificazione dell’Ufficio per i Procedimenti Disciplinari con la figura del direttore regionale dell’Agenzia delle Entrate è stata ritenuta garantire, stante la posizione di vertice di tale organo, il sufficiente distacco dalla struttura lavorativa alla quale era addetto il dipendente e dunque la terzietà dell’ufficio disciplinare (Cassazione n.20417/2019).

Chiarisce molti punti ed indirizzi Cassazione n.1753/2017 la quale afferma che in tema di pubblico impiego contrattualizzato, il principio di terzietà dell’ufficio dei procedimenti disciplinari ne postula la distinzione sul piano organizzativo con la struttura nella quale opera il dipendente, e non va confuso con la imparzialità dell’organo giudicante, che solo un soggetto terzo, rispetto al lavoratore ed alla P.A., potrebbe assicurare, laddove il giudizio disciplinare, sebbene connotato da plurime garanzie poste a difesa del dipendente, è comunque condotto dal datore di lavoro, ossia da una delle parti del rapporto. Ne consegue che qualora il suddetto ufficio abbia composizione collegiale, e sia distinto dalla struttura nella quale opera il dipendente sottoposto a procedimento, la terzietà dell’organo non viene meno solo perché sia composto anche dal soggetto che ha effettuato la segnalazione disciplinare.

Fabio Petracci.

CONVEGNO – Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato.

Pubblichiamo il video Youtube del convegno “Il procedimento disciplinare nei rapporti di lavoro pubblico e privato” organizzato dall’Ordine degli avvocati di Roma e tenutosi in diretta streaming il 25 maggio 2021 contenente l’intervento dell’avv. Petracci “La difesa ed il contraddittorio nel procedimento disciplinare” che ha inizio al minuto 1.14.13

Il contraddittorio nel procedimento disciplinare del lavoro pubblico e privato e la sua rilevanza nella fase processuale

  1. Considerazioni generali – Due diversi procedimenti disciplinari.

 

Nel trattare il tema è sicuramente utile premettere un breve esame della struttura del procedimento disciplinare nel lavoro privato e nel lavoro pubblico contrattualizzato.

 

  1. Nel lavoro alle dipendenze dei privati.

 

Nel lavoro alle dipendenze dei privati datori di lavoro, la procedura disciplinare era introdotta con lo statuto dei lavoratori che con l’articolo 7 inserito nel titolo I della libertà e della dignità del lavoratore, introduce , quella che è stata una rilevante innovazione per l’epoca, quale il diritto del lavoratore a conoscere le condotte destinate a dar luogo alla sanzione disciplinare e ad avere tempestiva contezza delle mancanze che gli venivano addebitate al fine di potersi adeguatamente difendere.

Nella sostanza un bilanciamento innovativo tra il potere imprenditoriale e la libertà e dignità del lavoratore.

In concreto, la semplice realizzazione dell’articolo 41 della carta costituzionale che vuole armonizzare la libertà organizzativa dell’impresa con la dignità umana.

 

  1. Nel lavoro contrattualizzato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

Diversa invece la genesi e l’impostazione del sistema disciplinare nel lavoro pubblico contrattualizzato.

In tale ambito, diamo per scontato quanto posto dallo statuto dei lavoratori, ma è contestualmente considerata l’innovativa natura contrattuale del rapporto di lavoro, accanto alla quale come elemento di specialità, si vuole introdurre un impianto disciplinare funzionale ai principi di buon andamento della pubblica amministrazione contenuti nell’articolo 97 della carta costituzionale.

Quindi, in quest’ultimo caso, la tutela del lavoratore deve bilanciarsi con questo principio costituzionale, dove il buon andamento si coniuga oltre che con l’interesse della pubblica amministrazione che dovrebbe riflettere quello della comunità, anche con il principio di imparzialità contenuto nello stesso articolo 97.

La sintesi è data dall’impianto normativo contenuto nel testo unico del pubblico impiego agli articoli da 55 a 55 sexies.

Trattasi di un corpo di norme inderogabili improntate a principi di officialità, dove l’avvio dell’azione disciplinare è obbligatoria, a scanso di responsabilità del dirigente, dove sussiste l’obbligo dei dipendenti a collaborarvi.

Sussiste in tale ambito un principio di terzietà che tocca l’intera fase di applicazione della sanzione affidata ad apposito ufficio dei procedimenti disciplinari.

La fase segnalazione contestazione, difesa e decisione è scandita da termini definiti e precisi laddove il termine massimo per la segnalazione ed il termine finale per la conclusione del procedimento non possono essere superati a pena di nullità dell’intero procedimento.

Tornando all’esame della fase procedimentale e delle tutele difensive, le differenze delle impostazioni qui rilevate assisteranno le considerazioni che saranno di seguito svolte.

Notiamo in ogni caso che al rigore ed all’ufficialità della normativa corrispondono maggiori garanzie difensive per gli incolpati, come se in qualche modo, anche impropriamente, il procedimento disciplinare pubblico venisse ad avvicinarsi al processo penale.

Di seguito esamineremo le varie fasi dei procedimenti disciplinari rilevando le opportunità ed i limiti del contraddittorio nell’ambito del processo disciplinare.

 

  1. Fase delle indagini.

 

Con la sentenza n.16598 del 20.6.2019, la Corte di Cassazione ritiene legittime le indagini preliminari del datore di lavoro volte ad acquisire le prove del ritenuto illecito.

Di fronte alle obiezioni relative allo svolgimento delle indagini, inaudita altera parte, la corte ha ritenuto che il rispetto della regola del contraddittorio interessa solo la parte del procedimento disciplinare successiva alla contestazione.

Il principio è applicabile anche al procedimento disciplinare nell’ambito del pubblico impiego.

 

  1. La contestazione.

 

E’ questa la fase che consente l’avvio della procedura disciplinare e che pertanto deve consentire l’esercizio del diritto di difesa.

Quindi, la contestazione deve essere:

 

 

La reazione all’illecito posto in essere dal dipendente deve essere tempestiva a dimostrare l’interesse del datore di lavoro ed anche al fine di garantire all’incolpato una pronta e precisa ricostruzione dei fatti.

Nel rapporto di lavoro privatistico l’articolo 7 dello Statuto dei Lavoratori non stabilisce dei termini rigidi e quindi sarà il giudicante a valutare la tempestività.

La Cassazione con una recente pronuncia n.12193 del 22.6.2020, ha ritenuto come nel valutare l’immediatezza della contestazione, occorra tenere conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro ad assumere sufficienti elementi a sostenere la contestazione e del lavoratore a difendersi su fatti recenti che egli sia in grado di trattare a livello difensivo.

Nel caso di specie, era ritenuta tardiva una contestazione effettuata all’esito di un procedimento penale conclusosi a lunga distanza dai fatti addebitati.

Nel procedimento disciplinare di cui al testo unico del pubblico impiego, è stabilito un termine di 10 giorni dalla conoscenza del fatto per la segnalazione all’ufficio incaricato dei procedimenti disciplinari, mentre quest’ultimo ha a disposizione un termine di 20 giorni per procedere alla contestazione.

 

 

  1. Specificità.

 

Al fine di consentire adeguata difesa, la contestazione deve contenere una dettagliata descrizione del fatto contestato al lavoratore, del luogo e del tempo in cui la condotta si è realizzata, oltre ad una precisa descrizione della stessa. Non sono imposti schemi rigidi e prestabiliti nella lettera di contestazione. Quest’ultima deve inoltre contenere l’invito a rendere le proprie giustificazioni nei termini di legge. Sul punto vedasi Cassazione 15 maggio 2014 n.10662.

 

  1. Immutabilità.

 

Una volta contestati dei fatti, sugli stessi sarà impostata tutta la procedura disciplinare.

Rilevanti mutamenti dei fatti addebitati risultano idonei a ledere il diritto di difesa. Ciò accade secondo la pronuncia della Cassazione n.28756 del 2019, allorquando sia intervenuta una sostanziale modifica del fatto addebitato tale da modificare sostanzialmente il fatto addebitato mediante il riferimento ad un quadro diverso da quello posto a fondamento della sanzione.

Un tanto non si verifica, allorquando siano dedotti fatti nuovi ma marginali rispetto al fatto contestato ( Cassazione 13.10.2020 n.22076).

Il principio delineato vale anche nell’ambito del procedimento disciplinare nel pubblico impiego.

 

  1. Giustificazione e Audizione.

 

  1. Chi può assistere l’incolpato?

 

E’ questa la fase dove principalmente si esplica il diritto di difesa.

Nel procedimento disciplinare del lavoro privato disciplinato dall’articolo 7 della legge 300/70 oltre che da eventuali norme contrattuali collettive, l’audizione dell’incolpato è solo eventuale e bene può il lavoratore limitarsi ad una difesa scritta.

Qualora il dipendente incolpato chieda di essere sentito, il datore di lavoro, a pena di nullità del procedimento, vi deve provvedere.

L’articolo 7 stabilisce che il lavoratore incolpato può chiedere di essere sentito con l’assistenza di un rappresentante sindacale.

Stante la disposizione, si è ritenuto che il dipendente incolpato non possa fari assistere da un legale.

La Corte di Cassazione con la pronunzia n.9305/2017 ha ritenuto non sussistere il diritto del lavoratore a rendere le proprie giustificazioni orali in presenza di un avvocato.

In particolare, quanto allo svolgimento del procedimento disciplinare ex Art. 7, St. lav. (L. 300/1970), la Corte Suprema ha avuto modo di precisare come, in occasione dell’audizione orale, il diritto del lavoratore ad essere assistito da un rappresentante sindacale esaurisca le tutele previste dal legislatore per siffatto procedimento. Ciò significa, allora, che il datore di lavoro ha la semplice facoltà, ma non l’obbligo, di ascoltare il lavoratore in presenza di un avvocato, anche quando, per i medesimi fatti oggetto di contestazione disciplinare, il dipendente sia stato chiamato a rispondere nell’ambito di un procedimento penale.

Secondo i giudici della Cassazione, infatti, procedimento disciplinare e procedimento penale attengono a sfere di interessi giuridici diversi, per cui il diritto all’assistenza tecnica di un difensore è previsto solo nel caso del processo penale, data la rilevanza pubblicistica del medesimo.

Nell’ambito del procedimento regolato dal Testo Unico sul Pubblico Impiego DLGS 165/2001 articolo 55 bis , il dipendente potrà invece farsi assistere da un procuratore ovvero da un rappresentante dell’associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato.

Dunque chiunque in quanto munito di procura potrà assistere l’incolpato ed a maggior ragione un legale.

  1. Quale rappresentante sindacale?

Una sentenza della Cassazione, alquanto datata, la n.1965/82 riteneva che il mandato alla difesa potesse essere conferito esclusivamente alle organizzazioni firmatarie del contratto collettivo.

Più di recente, Cassazione 30 agosto 1993 n.9177, ebbe invece a sostenere che qualsiasi organizzazione sindacale era legittimata ad assistere il lavoratore.

  1. E’ possibile richiedere in fase difensiva copia della documentazione che sostiene l’incolpazione?

Spesso le contestazioni disciplinari si fondano su atti e documenti del datore di lavoro e l’incolpato può avere interesse all’accesso nella fase di audizione.

L’articolo 7 della legge 300/70 non contempla un simile diritto.

Con diverse sentenze questo diritto era stato negato (Cassazione 6.10.2017, Cassazione 21 ottobre 2010 n.21612).

Con sentenza n.7581 del 27 marzo 2018, la Corte di Cassazione ammetteva il diritto non tanto in ragione del diritto di difesa che poteva ritenersi limitato nella sede disciplinare, quanto piuttosto con riferimento agli obblighi di correttezza e buona fede che incombono sulle parti ed a patto di chiara indicazione della documentazione richiesta e della sua stretta inerenza alle difese da svolgere.

Nell’ambito del procedimento disciplinare del lavoro pubblico contrattualizzato, l’articolo 55 bis al comma 4 prevede per il dipendente il diritto di accesso agli atti istruttori del procedimento.

 

 

  1. Ripercussioni del procedimento disciplinare in ambito giudiziale.

La fase procedimentale cui abbiamo accennato pur essendo estranea al procedimento giudiziale è spesso destinata a confluire nel medesimo con ripercussioni spesso rilevanti.

Ci riferiamo in primo luogo alla contestazione che in nome del principio di immutabilità cui abbiamo fatto cenno dovrà essere aderente alle difese processuali del convenuto e i casi di difformità potranno essere eccepiti dal ricorrente.

Anche la genericità della contestazione potrà rilevare in sede giudiziale, ma in questo caso se l’eccezione è fondata non si perverrà neppure alla fase istruttoria.

Nel caso in cui, venga rilevata la genericità della contestazione, ritengo opportuno rilevarla già in sede disciplinare, evitando di svolgere una difesa compiuta, va rilevato che la mancata risposta alla contestazione non equivale ad ammissione del fatto. Il tenere in eccessivo conto un eccezione dall’esito incerto potrebbe comunque inficiare la fase difensiva.

Nel caso di tardività della contestazione, è pure opportuno rilevarlo formalmente in fase disciplinare, espletando le difese e facendo notare l’eccezione di tardività.

Nel caso di mancato conferimento della documentazione su cui si fonda l’incolpazione, sarà opportuno farlo notare in sede di audizione, astenendosi da altre dichiarazioni.

Per quanto attiene invece alle giustificazioni.

Va posta molta attenzione ad evitare dichiarazioni confessorie del lavoratore o a non contestare i punti su cui si basa l’incolpazione chiedendone la verbalizzazione.

Dichiarazioni confessorie e mancata contestazione in presenza di valida incolpazione possono formare in sede giudiziale elemento di convincimento del giudice.

Per l’audizione, la presenza del sindacalista non è sempre appropriata in quanto questa tipologia di assistenza tende a privilegiare il discorso di insieme e la trattativa anche in senso favorevole al lavoratore, omettendo spesso un compiuto esame del fatto e la sua contestazione.

 

Avvocato Fabio Petracci.

 

Relazione tenuta dall’avvocato Fabio Petracci

nel convegno Il Procedimento Disciplinare nei Rapporti di Lavoro Pubblico e Privato

organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Roma e tenutosi presso la Corte di Cassazione in data 25.5.2021.

Contestazione disciplinare diritto di accesso alla documentazione. Il lavoratore incolpato nell’ambito di un procedimento disciplinare ha diritto ad ottenere copia degli atti che sorreggono l’accusa.

La Corte di Cassazione con la sentenza che segue garantisce l’accesso ai documenti aziendali qualora sia in gioco la tutela del lavoratore e la documentazione sia imposta dalla legge o dalla normativa aziendale.

Il diritto di accesso è considerato dalla Cassazione (ordinanza 14 dicembre 2018 n.32533) non tanto come un eccezione alla tutela dei dati, quanto piuttosto come una forma specifica di tutela che consente al dipendente di esercitare il controllo sui dati che lo riguardano.

Nel caso di specie, un dipendente di un istituto di credito colpito da un procedimento disciplinare richiede l’accesso ai dati e documenti che sorreggono la contestazione e la Corte di Cassazione ne riconosce il diritto.

La sentenza in commento non è l’unica che riconosce al lavoratore incolpato di ottenere nel corso della contestazione disciplinare l’accesso alla documentazione che sorregge l’incolpazione.

Nel caso di specie essa si sofferma principalmente sull’accesso del lavoratore a dati riservati ed infatti in corso di causa è chiamato anche il garante della privacy. Più nette nel senso di affermare un generale diritto di accesso agli atti al lavoratore incolpato ai sensi dell’articolo 7 della legge 300/70 le restanti sentenze.

Infatti recenti pronunce della Suprema Corte (Cassazione n.50/2017, n.6337/2013, 15169/2012 , 23304/2010 , sanciscono un tale diritto e ciò non solo nel procedimento disciplinare dell’impiego pubblico dove esso è regola, ma anche nell’ambito del lavoro privato dove  sebbene neppure la legge n. 300 del 1970, art. 7, non preveda, nell’ambito del procedimento disciplinare, un obbligo per il datore di lavoro di mettere a disposizione del lavoratore nei cui confronti sia stata elevata una contestazione disciplinare, la documentazione su cui essa si basa, ha ritenuto la giurisprudenza della Suprema Corte che  il datore di lavoro è tenuto ad offrire in consultazione all’incolpato i documenti aziendali laddove l’esame degli stessi sia necessario al fine di permettere alla controparte un’adeguata difesa, in base ai principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto.

Oltre alle sentenze appena citate, va ricordata Cassazione n.7581 del 27 marzo 2018 che espressamente afferma come l’articolo 7 della legge 300/70 vada completato con l’obbligo di permettere al lavoratore incolpato di accedere ai documenti su cui si basa l’accusa integrando e completando così il diritto di difesa sancito dall’articolo 7 legge 300/70.

Avvocato Fabio Petracci.

Con il decreto di marzo entra in vigore l’obbligo (onere) di vaccinazione per i sanitari.

L’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 giunge al termine di un vivace dibattito in merito all’obbligatorietà del vaccino anti COVID per coloro che esercitano una professione sanitaria di contatto con l’utenza.

Ricordiamo come fosse stata riscontrata la contrapposizione tra coloro che proponevano il licenziamento di quei sanitari che non volessero sottoporsi al vaccino e dall’altra parte coloro che ritenevano non sussistere obbligo alcuno in forza del disposto dell’articolo 32 della Costituzione che escludeva l’esistenza dell’obbligo di trattamento sanitario in assenza di norma di legge che lo autorizasse.

Nel corso delle discussioni, era emersa una via mediana che, a prescindere dall’obbligatorietà del trattamento vaccinale , lo considerava un requisito fondamentale per rendere la prestazione in ambito sanitario; quindi una condizione per poter lavorare in quel settore.

Ne derivava, secondo questa opinione, che il dipendente che non risultava per qualsiasi causa, non vaccinato era inidoneo alla prestazione e poteva di conseguenza essere sospeso.

L’avvio della campagna vaccinale con i relativi intoppi che si sono verificati e l’attenzione dedicatavi dai Media, ha imposto al Governo l’avvio di misure più rigorose.

Con l’articolo 4 del Decreto Aprile 2021 è imposto per il personale sanitario che opera a contatto con i pazienti l’obbligo del vaccino anti COVID.

La misura assume carattere temporaneo finalizzata al completamento del piano di vaccinazione e comunque con termine al 31 dicembre 2021ed è rivolta agli esercenti le professioni sanitarie ed agli operatori di interesse sanitario operanti nelle strutture sanitarie, socio sanitarie, socio assistenziali, pubbliche e private, farmacie e parafarmacie e studi professionali.

Essa consiste nell’obbligo a sottoporsi a vaccinazione gratuita per la prevenzione del COVID.

E’ quindi meglio precisato che la vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della prestazione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative.

La legge prevede poi un obbligo per gli ordini professionali e per i datori di lavoro di trasmettere entro cinque giorni dall’entrata in vigore del decreto, alle rispettive regioni l’elenco degli iscritti e degli operatori sanitari.

Ne segue un periodo di dieci giorni nel corso del quale, le Regioni provvederanno ad una verifica delle relative posizioni, segnalando alle ASL competenti eventuali inadempienze.

Quindi, nel caso di persistente inadempienza, le ASL provvederanno mediane apposito atto di accertamento a sospendere dal diritto a svolgere le prestazioni e le mansioni di appartenenza.

Da questo quadro sommario, possiamo trarre le seguenti considerazioni:

  1. Non è stato introdotto un obbligo generale di vaccinazione per coloro che lavorano a contatto con il pubblico, ma esclusivamente con il personale sanitario o parasanitario;
  2. L’obbligo è temporaneo;
  3. Impropriamente può parlarsi di obbligo, si tratta di un onere per chi vuole continuare a svolgere le proprie funzioni;
  4. La conseguenza del mancato adempimento non assume connotati disciplinari, ma semplicemente comprime il diritto a svolgere la propria professione e la proprie mansioni, con la conseguenza, almeno ad avviso di chi scrive, che il dipendente non vaccinato, assume il diritto ed il dovere di svolgere altre mansioni anche di carattere inferiore e solo in caso di mancato reperimento di queste ultime, il dipendente potrà non essere retribuito.