I Quadri nel Pubblico Impiego. Un’occasione mancata ma non persa…

a. Breve cronistoria.

Con il DLGS 165/2001 il rapporto di lavoro del personale delle pubbliche amministrazioni è per la gran parte ricondotto alle regole del codice civile e della ordinaria normativa in tema di lavoro.
Si poneva da subito il problema della operatività in tale ambito dell’articolo 2095 dell’articolo 2095 del codice civile che suddivide i lavoratori nelle categorie dei dirigenti, dei quadri, degli impiegati e degli operai.

Il DLGS 165/2001 evidenziava invece esclusivamente la categoria dei dirigenti e quindi del restante personale non dirigenziale, pur sottolineando nell’allora articolo 40, comma 2 la presenza di spazi contrattuali per specifiche elevate professionalità. In particolare rilevava per questa organizzazione il tema dell’inquadramento delle professionalità medio – alte e quindi dei quadri.

b. La lunga strada del contenzioso.

Ne seguiva una lunga e fitta interlocuzione con la funzione pubblica. Erano quindi avviate numerose cause per il riconoscimento della categoria di quadro nell’ambito del comparto pubblico. Alcune sortivano esito positivo altre no.

Nel 2008, la Corte di Cassazione (Cassazione, Sezione lavoro, sentenza 6 marzo 2008 n. 6063) riteneva definitivamente che l’articolo 2095 del codice civile che prevede anche la categoria dei quadri non doveva trovare attuazione nell’ambito dell’impiego pubblico dove invece, a detta della Suprema Corte esistevano specifiche normative a tutela della professionalità
apicali. La Corte si riferiva all’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 che prevede nell’ambito della contrattazione collettiva apposita disciplina per le figure professionali che “che in posizione di elevata responsabilità svolgono compiti di direzione” e che, sempre in tale posizione, svolgono compiti che “comportano iscrizione ad albi oppure tecnicoscientifici
e di ricerca”. La Corte in sostanza riteneva questa una specifica disciplina di settore che impediva la trasposizione della categoria dei quadri dal codice civile alla disciplina del pubblico impiego. Va rilevato che ad oggi l’articolo 40 comma 2 del DLGS 165/2001 non ha trovato attuazione.
Particolare di rilievo, il Tribunale di Treviso, rinviava dapprima all’ARAN il contratto del comparto Ministeri laddove non contemplava la figura dei quadri, per verificare se le parti intendevano trovare una soluzione in merito. Ciò non solo non accadeva, ma ARAN e sindacati firmatari del Comparto Pubblico mandavano risposta al giudice escludendo tale soluzione.
Lo stesso magistrato riteneva il dover affidare la questione alle sole parti stipulanti, di rilevante incostituzionalità e quindi la questione era avviata alla Corte Costituzionale che però non la riteneva tale.

c. L’esperienza della Vice dirigenza mai attuata.

Di seguito anche grazie alle numerose insistenze dell’Organizzazione, la legge 145 /2002 (Legge Frattini) istituiva mediante l’articolo 17 bis la vice dirigenza la cui attuazione era poi affidata alla contrattazione collettiva di comparto.
Un tanto non avveniva e dopo alterne vicissitudini giudiziarie che vedevano anche l’intervento della Corte Costituzionale, l’articolo 17 bis era abrogato. Di seguito minore era l’interesse della Associazione per l’argomento.
Attualmente è pendente un ricorso innanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Va ricordato inoltre che nel 2001, il Parlamento Europeo – Ufficio Petizioni, dopo l’audizione del sindacato DIRSTAT a Bruxelles aveva ritenuto il governo e il parlamento italiano inadempienti perché dopo la cosiddetta privatizzazione del pubblico impiego non aveva istituito un’area quadri per il personale ex direttivo relegandolo nei livelli funzionali.

Per quanto riguarda la legge di abrogazione della vice dirigenza, essa era intervenuta dopo che erano passate
in giudicato alcune pronunce che su diversi versanti ritenevano la sussistenza del diritto.
Si riteneva in tal modo, che si fosse verificata un’indebita ingerenza del potere legislativo nell’ambito di una statuizione consolidata del potere giudiziario.

d. Prospettive

Con la legge 124/2015, erano poste le basi per la riforma della dirigenza (legge Madia). Non seguiva però nei tempi debiti la legge di attuazione e quindi ad oggi, la riforma è ancora in totale attesa di attuazione. Va notato come la legge delega 124/2015 non accenni né alla vice dirigenza, né all’introduzione della categoria dei quadri.
Un aspetto interessante è dato invece dalla riduzione del numero dei dirigenti e dalla prevista istituzione del ruolo unico della dirigenza.

Si potrebbe porre l’opportunità di seguire una nuova strada.
Fondamentalmente, l’istituzione della vice dirigenza è stata bollata come corporativa e costosa e quindi come un arretramento dell’organizzazione amministrativa. In realtà essa ha trovato una forte opposizione da parte del sindacato confederale (CISL in primis) che non ne ha permesso l’avvio.
Se questa ormai è storia, dobbiamo ora esaminare allo stato quali sono le possibilità di introdurre un’area dei quadri o della vice dirigenza nell’ambito del pubblico impiego percorrendo una nuova strada anche alla luce dei nuovi assetti che hanno interessato il settore.
Si propone innanzitutto di inserirsi nel solco della riforma della dirigenza che dovrà di seguito essere nuovamente avviata per sviluppare i temi della riduzione dei costi, della conseguente riduzione dei dirigenti e della costituzione di un ruolo unico che consenta alla Pubblica Amministrazione non solo di ridurre il numero dei dirigenti, ma di disporre anche di un nucleo di personale non dirigente, ma altamente qualificato cui attribuire compiti di sostituzione, di consulenza e di elevata specializzazione.

e. Partendo dalle criticità della legge abrogata.

L’introduzione della vice dirigenza avvenuta con la legge 145/2002 prevedeva una complessa architettura legale collegata alle categorie esistenti, alla delega di funzioni e ad un riconoscimento contrattuale.
Inoltre l’incarico del vice – dirigente presentava delle criticità in riferimento alle modalità di assegnazione degli incarichi al vice dirigente. Questa carenza costituiva un elemento di notevole e notata rigidità organizzativa. In tal modo infatti, i dipendenti assurti alla qualifica di vice – dirigente acquisivano una posizione sostanzialmente irremovibile con una totale
coincidenza tra rapporto di servizio e rapporto organico. In sostanza, i vice dirigenti avrebbero un incarico fisso a differenza dai dirigenti, soggetti, invece, alle valutazioni ed a possibili modifiche degli incarichi dirigenziali.
La sostanziale inamovibilità dall’incarico avrebbe potuto dar luogo ad un effetto perverso nella dinamica del rapporto tra gli organi di governo e la dirigenza, dove quest’ultima presentava un elemento di debolezza costituito dalla potestà di nomina e revoca da parte degli organi di governo a fronte di una sostanziale inamovibilità dei sottoposti vice dirigenti, mettendo così in pericolo il principio di separazione delle funzioni dirigenziali da quelle politiche, conferendo una maggior forza ai cosiddetti funzionari rispetto alla dirigenza.

Inoltre l’accesso alla vice dirigenza previsto dalla legge 145/2002 era pressochè automatico per i livelli più elevati dell’area C con adeguato titolo di studio. Mancava in effetti, una procedura selettiva nei confronti di un’area apicale C abbastanza generalizzata ed inflazionata e nessun criterio di valutazione per l’attribuzione dell’incarico.
Per contro, il sistema oggi vigente delle posizioni organizzative è tutto incentrato sul conferimento di un incarico nella quasi totale discrezionalità della pubblica amministrazione e sull’inesistenza di una base di dipendenti titolari di un diritto ad essere selezionati.
Si poneva così, almeno per i più critici, come una nuova forma di irrigidimento delle strutture dell’impiego pubblico, cui si preferirono le posizioni organizzative che da una parte salvaguardavano l’uniformità dell’inquadramento del personale non dirigenziale e dall’altra garantivano alle amministrazioni una notevole discrezionalità. Essa inoltre era particolarmente invisa ai sindacati tradizionali, in quanto prevedeva la creazione di una specifica e separata area anche contrattuale della vice dirigenza che avrebbe fatto di quadri e vice dirigenti e quindi delle specifiche organizzazioni di categoria dei soggetti della contrattazione collettiva.

f. L’emergere di nuove e attuali esigenze

– Il caso delle Agenzie Fiscali
Sulla base di tali considerazioni, si sarebbe dovuto puntare alla costituzione di un’area quadri anche nel pubblico impiego cui poi conferire appositi incarichi e deleghe su valutazione dei dirigenti.
Fatte queste debite precisazioni, si riscontrano elementi del tutto oggettivi che rendono necessaria ed attuale la costituzione di questa area professionale.

Va ricordato che con sentenza del 25 febbraio 2015, la Corte Costituzionale censurava le Agenzie Fiscali che nella mancanza di quadri intermedi in grado di coprire determinate posizioni, aveva attribuito incarichi dirigenziali a propri funzionari pe assicurare la funzionalità operativa delle proprie strutture e l’attuazione delle misure di contrasto all’evasione.
Ne traeva lo spunto la finanziaria per il 2018 legge 27.12.2017 n.205 che prevedeva all’articolo 1, comma 93 la possibilità per le agenzie fiscali di istituire posizioni organizzative per lo svolgimento di incarichi di elevata professionalità o particolare specializzazione ivi compresa la responsabilità di uffici operativi di livello non dirigenziale nei limiti del risparmio di spesa conseguente alla riduzione di posizioni dirigenziali, conferendo dette posizioni a funzionari con almeno cinque anni di
esperienza nella terza area mediante una selezione interna in base alle conoscenze professionali ed alle capacità tecniche ed alle valutazioni conseguite negli anni precedenti, attribuendo agli stessi il potere di adottare atti amministrativi anche a rilevanza esterna con poteri di spesa e di organizzazione delle risorse umane, articolando dette posizioni in relazione ai poteri conferiti, favorendo quindi detto personale nell’accesso alla dirigenza tramite concorso facilitato.

La norma citata in maniera settoriale e non sempre chiara e coordinata istituisce di fatto una categoria molto affine alla vice dirigenza, attribuendo delle posizioni organizzative, termine che appartiene alla contrattazione collettiva e non alla legge, a determinati soggetti predeterminati con ampi poteri.
La norma così emanata rivela da un lato un indicibile elemento di confusione e di cattivo coordinamento con il testo unico del pubblico impiego e con la contrattazione collettiva, introducendo così anche elementi di dubbia costituzionalità.
Essa però appare come sintomatica della necessità di un’area professionale intermedia tra la dirigenza ed il resto del personale anche in considerazione di esigenze di risparmio.
Essa per quanto infelicemente formulata, potrebbe dare lo spunto per un ripensamento generale e di ampio respiro per l’introduzione definitiva della vice dirigenza nell’impiego pubblico in termini mutati rispetto alla disciplina abrogata.

– La riforma Madia nella parte non attuata.
Un ulteriore cenno va alla legge delega 124/2015 Riforma Madia nella parte concernente la dirigenza che però non ha trovato attuazione, essendo scaduti i termini per la decretazione.
L’articolo 11 della previsione di legge si occupa della dirigenza pubblica ed in particolare al punto c) dell’accesso alla dirigenza, stabilendo l’immissione dei vincitori del corso concorso in fase iniziale quali funzionari, senza tener conto che il testo unico sul pubblico impiego non prevede né tali figure né un loro equivalente, prevedendo inoltre per i dirigenti privi di incarico la possibilità di avanzare istanza per passare alla carriera di funzionario.
Non si tratta davvero di un semplice lapsus del legislatore, ma ancora una volta di una sensazione di necessità di un’area di quadri – vicedirigenti – funzionari.

– Il piano triennale dei fabbisogni del personale e l’emergere della professionalità.
Va ricordato ancora il recente DLGS 75/2017 che ha modificato l’articolo 6 del DLGS 165/2001 introducendo il piano triennale dei fabbisogni del personale consentendo alle pubbliche amministrazioni di superare il concetto obsoleto di organico intervenendo sull’assetto non solo quantitativo, ma anche e soprattutto qualitativo delle risorse, del livello di inquadramento e della loro specializzazione.
Si assiste quindi ad un rovesciamento del concetto numerico e qualitativo delle risorse che non dovrà essere più adeguato
esclusivamente alla pianta organica in essere, ma alle reali esigenze della struttura.
Questo primo riconoscimento alla qualità ed alla professionalità del personale ben può dar luogo all’introduzione di un’area di professionisti e specialisti nella pubblica amministrazione.

Proposte di intervento su rappresentatività, salario minimo e “contratti pirata”.

Riconduzione ad ordine del campo contrattuale – Salario Minimo – Interventi sulla rappresentatività. La linea di CIU – Unionquadri

E’ forte il richiamo mediatico ai cosiddetti “Contratti Pirata” ed alla violazione dei minimi contrattuali, realtà che imporrebbero l’adozione di un minimo orario legale e più stringenti normative per la rappresentanza sindacale e la contrattazione.

Ha fatto discutere mesi orsono la circolare n.3/2018 dell’Ispettorato del Lavoro che negava qualunque tipo di riconoscimento ai contratti collettivi che non riportavano la sottoscrizione dei tradizionali sindacati definiti “maggiormente rappresentativi.”

La situazione reale.

In realtà, il lavoro subordinato trova un ampia copertura contrattuale con il conseguente rispetto del salario minimo.

Sussiste comunque una rilevante proliferazione dei contratti collettivi che spesso presentano minimi tabellari inferiori rispetto a quelli sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative.

Trattasi di sistemi contrattuali che presentano un livello salariale molto più basso rispetto alla normalità dei contratti collettivi.

Il fenomeno appare accentuato e rilevante sino al 50% nel settore del tessile. La stipula di contratti sotto il trattamento minimo può toccare anche la regolamentazione di altri istituti soprattutto in tema di flessibilità.

Questa tipologia di contrattazione sorgeva all’inizio degli anni 90 nel settore del turismo e dell’agricoltura. Spesso convergevano in un nuovo contratto declaratorie contrattuali tratte da altri settori produttivi.

I primi fenomeni si manifestavano all’ inizio degli anni 90 nel  settore del turismo e dell’ agricoltura mediante la trasposizione nei contratti di mansioni tratte da altri settori produttivi ed inserite in altri contratti collettivi o in altra contrattazione all’uopo creata. Si verificava così un significativo decentramento settoriale.

Questo sistema era destinato ad allargarsi dalle piccole imprese verso sistemi produttivi di maggiori dimensioni, con l’avanzare della crisi e l’aumento del livello di competizione tra le imprese, con ripercussioni anche sulla concorrenza.

La vera emergenza.

La vera emergenza è verificata però tra i lavoratori a rischio povertà che non coincidono quasi mai con le categorie toccate da questi contratti, ma che si identificano in coloro che subiscono un impiego part time involontario con una notevole riduzione delle ore lavorate e retribuite.

Il contratto “pirata”

In ogni caso, la contrattazione così definita come “pirata” presenta due indici di riferimento.

Da una parte, il riscontro oggettivo di clausole non rispettose dei minimi contrattuali e di trattamenti legalmente imposti.

Dall’altra parte, le caratteristiche dei sottoscrittori che non sempre appaiono soggetti dotati di rappresentatività.

In merito al primo aspetto, l’indagine può in termini relativamente semplici acclarare la natura del contratto e dei suoi contenuti.

In tema all’insussistenza dei requisiti di rappresentatività in capo alle parti stipulanti, il requisito dovrebbe ritenersi un mero indice, salvo che, non ci si addentri nelle problematiche ancora aperte concernenti i requisiti di rappresentatività che ancora non hanno trovato piena definizione legale.

Va anche valutata la reale portata del fenomeno contrattuale all’esame anche in relazione ai rimedi già esperibili ed esistenti contro la violazione dei minimi contrattuali.

Rimedi attuabili.

Un primo correttivo seppure non sempre efficace e di agevole soluzione, è dato dall’articolo 36 della Costituzione, esso è definito come un rimedio residuo dal momento che richiede l’intervento giudiziale.

Ulteriore rimedio e non di poco conto è individuato nella disciplina previdenziale che stabilisce il minimo contributivo nei termini di cui articolo 1 DL 338/1989 e articolo 2, comma 25, legge n.549 del 1995).

Trattasi di normative che uniformano il calcolo dei contributi previdenziali ad un trattamento minimo individuabile nella legge e nei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale.

Consiglia inoltre l’applicazione di minimi salariali conformi anche la normativa in tema di appalti che impone il principio di solidarietà tra appaltante ed appaltatore e consiglia quindi l’applicazione di un contratto al riparo di contestazioni dell’INPS.

Inoltre anche le norme concernenti la detassazione di premi ed incentivi di cui all’articolo 51 del DLGS 81/2015 consigliano l’applicazione dei contratti stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi o dalle RSA aziendali.

Dunque non è tanto il mancato rispetto dei minimi contrattuali a determinare l’esiguità di molti trattamenti retributivi, quanto piuttosto l’uso forzato e talora truffaldino del part time che talvolta cela veri e propri rapporti a tempo pieno sottratti ad ogni disciplina contrattuale e di legge.

Quali interventi.

Il controllo amministrativo.

I possibili rimedi debbono tener conto di queste considerazioni.

Il primo e possibile rimedio è dato da un assiduo e costante controllo da parte della pubblica amministrazione che non appare particolarmente difficile dal momento che all’esame è principalmente la clausola contrattuale che riguarda i minimi contributivi.

Il salario minimo.

Il secondo rimedio è individuato nell’imposizione di un salario minimo.

La legge delega 183/2014 (delega al Governo in materia di ammortizzatori sociali all’articolo 1, comma 7, lettera g) prevedeva  l’introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato, nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

Un eventuale soluzione normativa di questo tipo pur presentando problematiche connesse al rispetto della concorrenza, nonché aspetti critici concernenti l’adattamento alle varie congiunture economiche, dovrebbe imporre dei minimi che siano effettivamente tali e che non impongano ai fini del loro rispetto un appiattimento del sistema retributivo soprattutto a sfavore delle categorie a maggiore specializzazione, comprimendo trattamenti accessori, incentivanti e benefits aziendali.

Si potrebbe ad evitare un tanto stabilire un minimo orario particolarmente limitato che comprenda al proprio interno anche il valore di benefits e welfare.

Una migliore definizione della rappresentatività e della legittimazione a contrattare.

Un ulteriore via da percorrere per selezionare gli attori contrattuali è quella di stabilire dei criteri certi di rappresentatività tali da non violare i principi contenuti all’articolo 39 della Costituzione e di resistere di fronte a dissociazioni e resistenze di altre associazioni sindacali.

Numerosi sono stati gli interventi delle principali confederazioni sindacali per attuare delle regole atte a legittimare i soggetti e le rappresentanze sindacali e quindi a fornire alla contrattazione quelle caratteristiche di stabilità e certezza che da molte parti sono auspicate.

Contiamo numerosi accordi intersindacali intervenuti sul tema nel tentativo di disciplinare la materia.

Appare quanto mai difficile che i soggetti destinati ad essere regolamentati e legittimati possano da soli e senza il concorso dei soggetti terzi dar luogo a delle regole complete ed inoppugnabili.

Ciò significa che dovrebbe rendersi necessario l’intervento legislativo che per dare totale stabilità al sistema dovrebbe essere profondo partendo dall’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione.

Il superamento del dato quantitativo.

Lo stesso intervento dovrebbe partire da un concetto di rappresentatività basato non solo su di un dato numerico e quantitativo, ma che dovrebbe invece tener adeguatamente conto di una rappresentatività garantita per quelle realtà lavorative o per quelle categorie con connotazioni specifiche anche in assenza di numeri di grande entità che le stesse proprio per la loro stessa natura non possono raggiungere.

Nel caso dei quadri, la contrattazione collettiva dei sindacati maggiormente rappresentativi, dovrebbe coesistere con uno spazio contrattuale riservato alle clausole di interesse per la categoria gestito da specifiche rappresentanze degli stessi.

Su questa strada va muovendosi il sindacato CIU – Unionquadri con il manifesto contrattuale dei quadri che vuole esaltare la specificità contrattuale e professionale della categoria.

Alla legge, si chiede poi di individuare specifici spazi elettorali e di rappresentanza per la categoria dei quadri.

La nostra posizione.

In sostanza, la posizione di CIU – Unionquadri è la seguente:

  • Contratti “pirata” – assoluta volontà di affrontare e risolvere il problema nei suoi limiti reali non coinvolgendovi fittiziamente tutte le associazioni sindacali minoritarie o non aderenti a CGIL – CISL – UIL.

Quindi individuazione di tali contratti esclusivamente sulla base dell’individuazione di minimi contrattuali manifestamente difformi e di clausole contrarie alle vigenti leggi, e non sulla base delle associazioni firmatarie.

  • Salario minimo.   Ciu Unionquadri non è convinta della necessità di questa misura, in quanto l’imposizione di un minimo di paga oraria soprattutto nei termini elevati prospettati, coinvolgerebbe risorse destinate a premiare il merito e la professionalità, ad incrementare gli istituti premiali e finirebbe, come già accaduto con la contingenza a dar luogo ad un insopportabile appiattimento retributivo. Ove la misura trovasse accoglimento, nel minimo di legge andrebbe computato il welfare aziendale ed ogni istituto premiale non tassato.
  • Revisione della rappresentatività sindacale.  Interesse di CIU Unionquadri per una contrattazione su clausole specifiche della categoria con un riconoscimento sul punto di rappresentatività e nel caso di intervento legislativo, adozione di norme di protezione/riserva che garantiscano la rappresentanza al di là del mero dato numerico.

RIDERS DI FOODORA. La recentissima sentenza della Cassazione. Testo integrale e sentenza.

Ecco il testo integrale della recentissima sentenza della Cassazione sui Riders di Foodora, preceduta da un breve commento.

L’intervento della Cassazione precede e confligge con il DL 101/2019 e considera come subordinati tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali con il requisito della etero – organizzazione (superando il requisito della subordinazione – articolo 2094 del codice civile).

Dall’inizio del 2000, se non prima, il modello tradizionale di lavoro subordinato sta subendo una progressivo adattamento a mezzi tecnologici.

Quelli informatici ed in pratica le piattaforme oggi permettono lo svolgimento di una prestazione con risultati non dissimili da quella della tradizionale organizzazione del lavoro, prescindendo almeno in parte da alcuni elementi che connotavano la classica prestazione di lavoro dipendente. Ci riferiamo alla determinazione da parte dell’imprenditore, datore di lavoro dei tempi e del luogo della prestazione.

Ancor oggi, giuridicamente, il contratto di lavoro subordinato è sintetizzato nell’articolo 2094 del codice civile. Quivi sono individuati due soggetti, datore di lavoro e lavoratore impegnati reciprocamente nell’erogare una retribuzione a fronte di una prestazione che avviene sotto la direzione del datore di lavoro. L’elemento centrale che contraddistingue questo contratto è dato dalla subordinazione, in quanto il prestatore di lavoro soggiace al vincolo disciplinare nei confronti del datore di lavoro.

Con il DLGS 81/2015, si vogliono adattare le definizioni giuridiche alla emergente realtà, eliminando fattispecie intermedie quali il lavoro a progetto che davano luogo ad identificazioni non sempre chiare dei rapporti.

Attualmente le tipologie di lavoro, dopo l’entrata in vigore del DLGS 81/2015 possono definirsi quattro:

La situazione così descritta era messa in discussione con l’emergere dei contenziosi relativi alle nuove forme di lavoro su piattaforma informatica, dove il potere organizzativo e disciplinare assumeva forme inedite. Ci riferiamo in particolare, ma non solo, alle vicende giudiziarie relative ai fattorini motorizzati per le consegne “riders”.

L’aspetto maggiormente controverso di questa disciplina è individuato nell’articolo 2 del DLGS 81/2015 che, come abbiamo visto, considera applicabile a tutti i rapporti di lavoro continuativi e personali organizzati dall’imprenditore – datore di lavoro; la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Con il decreto dignità DL 101/2019 la categoria era esplicitamente inserita tra quei lavoratori autonomi cui erano applicabili talune protezioni del lavoro

subordinato stabilite nel medesimo DL 101/2019 e quindi non tutta la disciplina concernente il rapporto di lavoro.

La sentenza della Cassazione che qui si legge è relativa ad un contenzioso anteriore all’intervento legislativo di cui al DL 101/2019 ed attribuisce ai lavoratori di cui all’articolo 2 DLGS 81/2015 e quindi non solo ai Riders la generalità delle tutele normative che competono ai lavoratori subordinati.

Ne consegue che alla luce dell’intervento giurisprudenziale della Cassazione, la legge 101/2019 ha introdotto una variante peggiorativa rispetto alla normativa precedente (vecchio testo del DLGS 81/2015) che secondo la Cassazione garantiva i trattamenti del lavoro subordinato a tutti i lavoratori menzionati all’articolo 2 DLGS 81/2015 in quanto sottoposti al potere organizzativo del datore di lavoro.

La Cassazione ha così esteso il campo applicativo dell’articolo 2094 e quindi della subordinazione a tutte queste fattispecie, nel mentre la legge successiva ha introdotto delle differenziazioni.

TESTO DELLA SENTENZA

Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14/11/2019) 24-01-2020, n. 1663

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11629/2019 proposto da:

FOODINHO S.R.L., quale incorporante di DIGITAL SERVICES XXXVI ITALY S.R.L. IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI REALMONTE, ORNELLA GIRGENTI, FIORELLA LUNARDON, PAOLO TOSI;
– ricorrente –

contro

P.M., C.G., L.R., R.A.A., G.V., tutti domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PATRIZIA TOTARO, GIUSEPPE MARZIALE, SERGIO SONETTO, GIULIA DRUETTA;
– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 26/2019 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/02/2019 r.g.n. 468/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2019 dal Consigliere Dott. GUIDO RAIMONDI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato PAOLO TOSI;

uditi gli Avvocati GIUSEPPE MARZIALE e GIULIA DRUETTA.

Svolgimento del processo

1. Con ricorso depositato il 10 luglio 2017, P.M., C.G., R.A.A., L.R. e G.V. hanno chiesto al Tribunale di Torino l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la Digital Services XXXVI Italy srl (Foodora) in liquidazione, lavoro consistente nello svolgimento di mansioni di fattorino in forza di contratti di collaborazione coordinata e continuativa (cd. riders), con la conseguente condanna della società convenuta al pagamento delle differenze retributive maturate, da liquidarsi in separato giudizio. I ricorrenti hanno inoltre sostenuto di essere stati illegittimamente licenziati dalla società e hanno chiesto il ripristino del rapporto, nonchè la condanna al risarcimento del danno subito per effetto del licenziamento, e per violazione dell’art. 2087 c.c.. Gli stessi ricorrenti hanno infine lamentato di aver subito un danno non patrimoniale, da liquidarsi in separato giudizio, per violazione delle norme poste a protezione dei dati personali.

2. Con sentenza del 7 maggio 2018, n. 778 il Tribunale di Torino ha rigettato tutte le domande.

3. Avverso tale sentenza hanno proposto appello i lavoratori.

4. La Corte d’appello di Torino, con sentenza n. 26 depositata il 4 febbraio 2019, in parziale accoglimento dell’appello, ha negato la configurabilità della subordinazione e ha ritenuto applicabile al rapporto di lavoro intercorso tra le parti il D.Lgs. n. 81 del 2015, art.2, come richiesto in via subordinata dai lavoratori già in primo grado; conseguentemente, in applicazione di tale norma ha dichiarato il diritto degli appellanti a vedersi corrispondere quanto maturato in relazione all’attività lavorativa prestata, sulla base della retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, dedotto quanto percepito; inoltre, ha condannato la società appellata al pagamento delle differenze retributive così calcolate, oltre accessori. Ogni altro motivo di appello, tra cui in particolare quello relativo all’asserita illegittimità dei licenziamenti, è stato respinto, pur osservandosi da parte della Corte di appello, su quest’ultimo punto, che in ogni caso non vi era stata un’interruzione dei rapporti di lavoro in essere da parte della società prima della loro scadenza naturale.

5. Per quanto qui ancora interessa, la Corte distrettuale ha ritenuto che il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, nel testo applicabile ratione temporis, individui un “terzo genere”, che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato cui all’art. 2094 c.c. e la collaborazione coordinata e continuativa come prevista dall’art. 409 c.p.c., n. 3, soluzione voluta dal legislatore per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle nuove tecnologie, si stanno sviluppando. Il giudice di appello ha ritenuto esistenti i presupposti per l’applicazione di questa norma, in particolare la etero-organizzazione dell’attività di collaborazione anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro e il carattere continuativo della prestazione.

6. Avverso la citata sentenza della Corte di appello di Torino ha proposto ricorso per cassazione la Foodinho s.r.l., quale incorporante della Digital Services XXXVI Italy s.r.l. in liquidazione. Il ricorso è stato affidato a quattro motivi, illustrati da memoria. I lavoratori hanno resistito con controricorso.

7. Successivamente al deposito del ricorso è stato pubblicato il D.L. n. 101 del 2019, recante, fra l’altro, modifiche al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2. Ciò ha suggerito il rinvio a nuovo ruolo della causa originariamente fissata per l’udienza del 22 ottobre 2019, in attesa della conversione in legge del suddetto decreto, avvenuto con L. n. 128 del 2019.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione all’art. 2094 c.c. e art. 409 c.p.c., n. 3, nonchè dell’art. 12 preleggi.

2. Secondo la ricorrente, il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, non ha introdotto, come invece ritenuto dalla Corte d’appello, un tertium genus di lavoro, non riconducibile nè al lavoro coordinato senza subordinazione (previsto dall’art. 409 c.p.c., n. 3) nè alla subordinazione in senso proprio (art. 2094 c.c.). Secondo la ricorrente, la etero-organizzazione è già un tratto tipico della subordinazione disciplinata nell’art. 2094 c.c., con la conseguenza che l’art. 2 cit., nel porla in esponente, non aggiungerebbe nulla alla ricostruzione della nozione sin qui compiuta dalla giurisprudenza, presentandosi come una sorta di norma apparente, inidonea a produrre autonomi effetti giuridici (tesi accolta dalla decisione di primo grado).

3. La Corte d’appello avrebbe inoltre commesso un altro grave errore di diritto, laddove essa ha affermato che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, in discorso consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi della prestazione. In tal modo, secondo la ricorrente, la Corte territoriale avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione” (pag. 19 del ricorso).

4. Il motivo è infondato.

5. Il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, sotto la rubrica “Collaborazioni organizzate dal committente”, così recita: “1. A far data dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

6. Sul testo del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, e, più in generale, sul lavoro attraverso piattaforme digitali, in specie sui riders, è intervenuto il decreto L. 3 settembre 2019, n. 101, convertito, con modificazioni, nella L. 2 novembre 2019, n. 128. Le modifiche alla disciplina in discorso non hanno carattere retroattivo, per cui alla fattispecie in esame deve applicarsi il suddetto art. 2, nel testo previgente al citato recente intervento legislativo. Quest’ultimo, in particolare, quanto dell’art. 2, comma 1, primo periodo, in discorso, sostituisce la parola “esclusivamente” con “prevalentemente” e sopprime le parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. Inoltre, la novella aggiunge, dopo il primo periodo, il seguente testo: “Le disposizioni di cui al presente comma si applicano anche qualora le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante piattaforme anche digitali”.

7. Prima di procedere all’analisi della censura, conviene ricordare sinteticamente il regolamento contrattuale della fattispecie, concluso sotto forma di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, e le modalità delle prestazioni litigiose, per come tali elementi sono stati ricostruiti dalla Corte territoriale, che richiama la sentenza di primo grado, e ripercorrere brevemente l’iter logico-giuridico seguito dalla sentenza impugnata per giungere alle conclusioni oggi criticate con il ricorso.

8. Secondo la ricostruzione della Corte territoriale, che ha fatto propria quella del giudice di prime cure, la prestazione lavorativa dei ricorrenti si è svolta a grandi linee nel modo seguente: dopo avere compilato un formulario sul sito di Foodora i controricorrenti venivano convocati in piccoli gruppi presso l’ufficio di (OMISSIS) per un primo colloquio nel quale veniva loro spiegato che l’attività presupponeva il possesso di una bicicletta e la disponibilità di un telefono cellulare con funzionalità avanzate (smartphone); in un secondo momento veniva loro proposta la sottoscrizione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e, dietro versamento di una caparra di Euro 50, venivano loro consegnati gli indumenti di lavoro ed i dispositivi di sicurezza (casco, maglietta, giubbotto e luci) e l’attrezzatura per il trasporto del cibo (piastra di aggancio e box).

9. Il contratto che veniva sottoscritto, cui era allegato un foglio contenente l’informativa sul trattamento dei dati personali e la prestazione del consenso, aveva le seguenti caratteristiche:

si trattava di un contratto di “collaborazione coordinata e continuativa”;

era previsto che il lavoratore fosse “libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa a seconda delle proprie disponibilità ed esigenze di vita”;

il lavoratore si impegnava ad eseguire le consegne avvalendosi di una propria bicicletta “idonea e dotata di tutti i requisiti richiesti dalla legge per la circolazione”;

era previsto che il collaboratore avrebbe agito “in piena autonomia, senza essere soggetto ad alcun vincolo di subordinazione, potere gerarchico o disciplinare, ovvero a vincoli di presenza o di orario di qualsiasi genere nei confronti della committente”, ma era tuttavia “fatto salvo il necessario coordinamento generale con l’attività della stessa committente”;

era prevista la possibilità di recedere liberamente dal contratto, anche prima della scadenza concordata, con comunicazione scritta da inviarsi a mezzo raccomandata a/r con 30 giorni di anticipo;

il lavoratore, una volta candidatosi per una corsa, si impegnava ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, con la comminatoria a suo carico di una penale di 15 Euro;

il compenso era stabilito in Euro 5,60 al lordo delle ritenute fiscali e previdenziali per ciascuna ora di disponibilità;

il collaboratore doveva provvedere ad inoltrare all’INPS “domanda di iscrizione alla gestione separata di cui all’art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995 n. 335” e la committente doveva provvedere a versare il relativo contributo;

– la committente doveva provvedere all’iscrizione del collaboratore all’INAIL ai sensi del D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 5;

il premio era a carico del collaboratore per un terzo e della committente per due terzi;

– la committente – come accennato – doveva affidare al collaboratore in comodato gratuito un casco da ciclista, un giubbotto e un bauletto dotato dei segni distintivi dell’azienda a fronte del versamento di una cauzione di Euro 50.

10. Quanto alle modalità di esecuzione delle prestazioni litigiose, la gestione del rapporto avveniva attraverso  la piattaforma multimediale “(OMISSIS) e un applicativo per smartphone (inizialmente “(OMISSIS)” e successivamente “(OMISSIS)”), per il cui uso venivano fornite da Foodora apposite istruzioni. L’azienda pubblicava settimanalmente su (OMISSIS) le fasce orarie (slot) con l’indicazione del numero di riders necessari per coprire ciascun turno. Ciascun rider poteva dare la propria disponibilità per le varie fasce orarie in base alle proprie esigenze personali, ma non era obbligato a farlo. Raccolte le disponibilità, il responsabile della “flotta” confermava tramite (OMISSIS) ai singoli riders l’assegnazione del turno. Ricevuta la conferma del turno, il lavoratore doveva recarsi all’orario di inizio di quest’ultimo in una delle tre zone di partenza predefinite ((OMISSIS)), attivare l’applicativo (OMISSIS) inserendo le credenziali (nome dell’utilizzatore, user name, e parola d’ordine, password) per effettuare l’accesso (login) e avviare la geolocalizzazione (GPS). Il rider riceveva quindi sull’applicazione la notifica dell’ordine con l’indicazione dell’indirizzo del ristorante. Accettato l’ordine, il rider doveva recarsi con la propria bicicletta al ristorante, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite l’apposito comando dell’applicazione il buon esito della verifica. A questo punto, posizionato il cibo nel box, il rider doveva provvedere a consegnarlo al cliente, il cui indirizzo gli era stato nel frattempo comunicato tramite l’applicazione, e doveva quindi confermare di avere regolarmente effettuato la consegna.

11. Non ignora la Corte il vivace dibattito dottrinale che ha accompagnato l’entrata in vigore e i primi anni di vita del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1 – dibattito che non si è esaurito e che certamente proseguirà alla luce delle novità portate dal recente intervento legislativo che si è ricordato – e nell’ambito del quale sono state proposte le soluzioni interpretative più varie, soluzioni che possono schematicamente e senza alcuna pretesa di esaustività così evocarsi:

a) una prima via, che segue inevitabilmente il metodo qualificatorio, preferibilmente nella sua versione tipologica, è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta;

b) una seconda immagina l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’etero-organizzazione e che troverebbe nel D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, il paradigma legale (teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato);

c) la terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo, dove tuttavia i modelli interpretativi si diversificano notevolmente essendo peraltro tutti riconducibili nell’ambito di una nozione ampia di parasubordinazione;

d) infine, vi è l’approccio “rimediale”, che rinviene in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati “deboli”), cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati.

12. La via seguita dalla sentenza impugnata è quella per cui il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, avrebbe introdotto un tertium genus avente caratteristiche tanto del lavoro subordinato quanto di quello autonomo, ma contraddistinto da una propria identità, sia a livello morfologico, che funzionale e regolamentare.

13. La conseguenza più significativa dell’inquadramento proposto dalla Corte torinese è rappresentata dall’applicazione delle tutele del lavoro subordinato al rapporto di collaborazione dei riders. Anche in questo caso, però, la Corte territoriale non ritiene praticabile un’estensione generalizzata dello statuto della subordinazione, ma opta per un’applicazione selettiva delle disposizioni per essa approntate, limitata alle norme riguardanti la sicurezza e l’igiene, la retribuzione diretta e differita (quindi relativa all’inquadramento professionale), i limiti di orario, le ferie e la previdenza ma non le norme sul licenziamento.

14. Contro la sentenza della Corte torinese i lavoratori non hanno proposto ricorso incidentale, non insistendo così sulla loro originaria tesi principale, tendente al riconoscimento nella fattispecie litigiosa di veri e propri rapporti di lavoro subordinato.

15. Venendo ora all’esame del motivo, sotto il primo profilo la doglianza censura radicalmente l’applicazione alla fattispecie litigiosa del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, giacchè si tratterebbe di norma “apparente”, incapace come tale di produrre effetti nell’ordinamento giuridico.

16. Non ritiene la Corte di poter accogliere tale radicale tesi.

17. Come è stato osservato, i concetti giuridici, in specie se direttamente promananti dalle norme, sono convenzionali, per cui se il legislatore ne introduce di nuovi l’interprete non può che aggiornare l’esegesi a partire da essi, sforzandosi di dare alle norme un senso, al pari di quanto l’art. 1367 c.c., prescrive per il contratto, stabilendo che, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anzichè in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno.

18. La norma introdotta nell’ordinamento nel 2015 va contestualizzata. Essa si inserisce in una serie di interventi normativi con i quali il legislatore ha cercato di far fronte, approntando discipline il più possibile adeguate, alle profonde e rapide trasformazioni conosciute negli ultimi decenni nel mondo del lavoro, anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, trasformazioni che hanno inciso profondamente sui tradizionali rapporti economici.

19. In attuazione della delega di cui alla L. n. 183 del 2014, cui sono seguiti i decreti delegati dei quali fa parte il D.Lgs. n. 81 del 2015, e che vanno sotto il nome di Jobs Act, il legislatore delegato, nel citato D.Lgs., dopo aver indicato nel lavoro subordinato a tempo indeterminato il modello di riferimento nella gestione dei rapporti di lavoro, ha infatti affrontato il tema del lavoro “flessibile” inteso come tale in relazione alla durata della prestazione (part-time e lavoro intermittente o a chiamata), alla durata del vincolo contrattuale (lavoro a termine), alla presenza di un intermediario (lavoro in somministrazione), al contenuto anche formativo dell’obbligo contrattuale (apprendistato), nonchè all’assenza di un vincolo contrattuale (lavoro accessorio). Per quanto attiene allo svolgimento del rapporto, il legislatore delegato ha poi introdotto un ulteriore incentivo indiretto alle assunzioni, innovando profondamente la disciplina delle mansioni attraverso il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3, con la riformulazione dell’art. 2103 c.c..

20. La finalità complessiva degli interventi del Jobs Act, costituita dall’auspicato incremento dell’occupazione, perseguita attraverso la promozione del contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è stata attuata anche attraverso l’esonero contributivo previsto dalla legge di stabilità, la quale ha previsto questa agevolazione per un triennio nel caso di assunzioni effettuate nel 2015 e l’esonero contributivo del 40% per un biennio per le assunzioni effettuate nel 2016; il legislatore delegato del 2015 è dunque intervenuto in tutte le fasi del rapporto di lavoro con l’intento di incentivare le assunzioni in via diretta ed indiretta.

21. Anche l’abolizione dei contratti di lavoro a progetto, la stabilizzazione dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto e di persone titolari di partite IVA e la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente si collocano dunque nella medesima prospettiva.

22. In effetti, le previsioni del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, vanno lette unitamente all’art. 52 dello stesso decreto, norma che ha abrogato le disposizioni relative al contratto di lavoro a progetto previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, artt. da 61 a 69-bis (disposizioni che continuano ad applicarsi per la regolazione dei contratti in atto al 25 giugno 2015, data di entrata in vigore del decreto), facendo salve le previsioni di cui all’art. 409 c.p.c.. Quindi dal 25 giugno 2015 non è più consentito stipulare nuovi contratti di lavoro a progetto e quelli esistenti cessano alla scadenza, mentre possono essere stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuativa ai sensi dell’art. 409 c.p.c., n. 3, sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato.

23. E’ venuta meno, perciò, una normativa che, avendo previsto dei vincoli e delle sanzioni, comportava delle garanzie per il lavoratore, mentre è stata ripristinata una tipologia contrattuale più ampia che, come tale, comporta il rischio di abusi. Pertanto, il legislatore, in una prospettiva anti-elusiva, ha inteso limitare le possibili conseguenze negative, prevedendo comunque l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato a forme di collaborazione, continuativa e personale, realizzate con l’ingerenza funzionale dell’organizzazione predisposta unilateralmente da chi commissiona la prestazione. Quindi, dal 1 gennaio 2016, si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato tutte le volte in cui la prestazione del collaboratore abbia carattere esclusivamente personale e sia svolta in maniera continuativa nel tempo e le modalità di esecuzione della prestazione, anche in relazione ai tempi e al luogo di lavoro, siano organizzate dal committente.

24. Il legislatore, d’un canto consapevole della complessità e varietà delle nuove forme di lavoro e della difficoltà di ricondurle ad unità tipologica, e, d’altro canto, conscio degli esiti talvolta incerti e variabili delle controversie qualificatorie ai sensi dell’art. 2094 c.c., si è limitato a valorizzare taluni indici fattuali ritenuti significativi (personalità, continuità, etero-organizzazione) e sufficienti a giustificare l’applicazione della disciplina dettata per il rapporto di lavoro subordinato, esonerando da ogni ulteriore indagine il giudice che ravvisi la concorrenza di tali elementi nella fattispecie concreta e senza che questi possa trarre, nell’apprezzamento di essi, un diverso convincimento nel giudizio qualificatorio di sintesi.

25. In una prospettiva così delimitata non ha decisivo senso interrogarsi sul se tali forme di collaborazione, così connotate e di volta in volta offerte dalla realtà economica in rapida e costante evoluzione, siano collocabili nel campo della subordinazione ovvero dell’autonomia, perchè ciò che conta è che per esse, in una terra di mezzo dai confini labili, l’ordinamento ha statuito espressamente l’applicazione delle norme sul lavoro subordinato, disegnando una norma di disciplina.

26. Tanto si spiega in una ottica sia di prevenzione sia “rimediale”. Nel primo senso il legislatore, onde scoraggiare l’abuso di schermi contrattuali che a ciò si potrebbero prestare, ha selezionato taluni elementi ritenuti sintomatici ed idonei a svelare possibili fenomeni elusivi delle tutele previste per i lavoratori. In ogni caso ha, poi, stabilito che quando l’etero-organizzazione, accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione, è marcata al punto da rendere il collaboratore comparabile ad un lavoratore dipendente, si impone una protezione equivalente e, quindi, il rimedio dell’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato.

27. Si tratta di una scelta di politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoro subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di “debolezza” economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma considerati meritevoli comunque di una tutela omogenea. L’intento protettivo del legislatore appare confermato dalla recente novella cui si è fatto cenno, la quale va certamente nel senso di rendere più facile l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato, stabilendo la sufficienza – per l’applicabilità della norma di prestazioni “prevalentemente” e non più “esclusivamente” personali, menzionando esplicitamente il lavoro svolto attraverso piattaforme digitali e, quanto all’elemento della “etero-organizzazione”, eliminando le  parole “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, così mostrando chiaramente l’intento di incoraggiare interpretazioni non restrittive di tale nozione.

28. Il secondo profilo della doglianza in esame invita proprio questa Corte, invece, a adottare un’interpretazione restrittiva della norma in discorso.

29. Secondo la ricorrente, come si è detto, la Corte territoriale, affermando che la etero-organizzazione disciplinata dall’art. 2, consisterebbe nel potere di determinare le modalità di esecuzione della prestazione e cioè la possibilità di stabilire i tempi e i luoghi di lavoro, avrebbe trascurato che l’art. 2, richiede, ai fini della sua applicazione, che le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate dal committente “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”. La parola “anche” del testo normativo dimostrerebbe che le tutele del lavoro subordinato garantite dall’art. 2, richiedono non una semplice etero-determinazione di tempi e luogo della prestazione, tantomeno in termini di mera “possibilità”, ma “una ingerenza più pregnante nello svolgimento della collaborazione, eccedente quindi tale etero-determinazione”.

30. Anche tale censura non può essere condivisa.

31. La norma introduce, a riguardo delle prestazioni di lavoro esclusivamente personali e continuative, la nozione di etero-organizzazione, “anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

32. Una volta ricondotta la etero-organizzazione ad elemento di un rapporto di collaborazione funzionale con l’organizzazione del committente, così che le prestazioni del lavoratore possano, secondo la modulazione unilateralmente disposta dal primo, opportunamente inserirsi ed integrarsi con la sua organizzazione di impresa, si mette in evidenza (nell’ipotesi del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2) la differenza rispetto ad un coordinamento stabilito di comune accordo dalle parti che, invece, nella norma in esame, è imposto dall’esterno, appunto etero-organizzato.

33. Tali differenze illustrano un regime di autonomia ben diverso, significativamente ridotto nella fattispecie del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2: integro nella fase genetica dell’accordo (per la rilevata facoltà del lavoratore ad obbligarsi o meno alla prestazione), ma non nella fase funzionale, di esecuzione del rapporto, relativamente alle modalità di prestazione, determinate in modo sostanziale da una piattaforma multimediale e da un applicativo per smartphone.

34. Ciò posto, se è vero che la congiunzione “anche” potrebbe alludere alla necessità che l’etero-organizzazione coinvolga tempi e modi della prestazione, non ritiene tuttavia la Corte che dalla presenza nel testo di tale congiunzione si debba far discendere tale inevitabile conseguenza.

35. Il riferimento ai tempi e al luogo di lavoro esprime solo una possibile estrinsecazione del potere di etero-organizzazione, con la parola “anche” che assume valore esemplificativo. In tal senso sembra deporre la successiva soppressione dell’inciso ad opera della novella cui si è fatto più volte cenno. Del resto è stato condivisibilmente rilevato che le modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa sono, nell’attualità della rivoluzione informatica, sempre meno significative anche al fine di rappresentare un reale fattore discretivo tra l’area della autonomia e quella della subordinazione.

36. Parimenti si deve ritenere che possa essere ravvisata etero-organizzazione rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina della subordinazione anche quando il committente si limiti a determinare unilateralmente il quando e il dove della prestazione personale e continuativa.

37. Il motivo in esame non critica dunque efficacemente le pertinenti statuizioni della sentenza impugnata.

38. Detto questo, non ritiene la Corte che sia necessario inquadrare la fattispecie litigiosa, come invece ha fatto la Corte di appello di Torino, in un tertium genus, intermedio tra autonomia e subordinazione, con la conseguente esigenza di selezionare la disciplina applicabile.

39. Più semplicemente, al verificarsi delle caratteristiche delle collaborazioni individuate dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, la legge ricollega imperativamente l’applicazione della disciplina della subordinazione. Si tratta, come detto, di una norma di disciplina, che non crea una nuova fattispecie.

40. Del resto, la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici. In passato, quando il legislatore ha voluto assimilare o equiparare situazioni diverse al lavoro subordinato, ha precisato quali parti della disciplina della subordinazione dovevano trovare applicazione. In effetti, la tecnica dell’assimilazione o dell’equiparazione è stata più volte utilizzata dal legislatore, ad esempio con il R.D. n. 1955 del 1923, art. 2, con la L. n. 370 del 1934, art. 2 e con la L. n. 1204 del 1971, art. 1, comma 1, con cui il legislatore aveva disposto l’applicazione al socio di cooperativa di alcuni istituti dettati per il lavoratore subordinato, nonchè con il D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 2, comma 1 e il D.Lgs. n. 81 del 2008, art. 2, comma 1, lett. a), in tema di estensione delle norme a tutela della salute e della sicurezza, e con il D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 64, come successivamente modificato, che ha disposto l’applicazione alle lavoratrici iscritte alla Gestione Separata dell’INPS alcune tutele previste per le lavoratrici subordinate.

41. Non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 c.c., ma si tratta di questione non rilevante nel caso sottoposto all’esame di questa Corte.

42. All’opposto non può neanche escludersi che, a fronte di specifica domanda della parte interessata fondata sul parametro normativo dell’art. 2094 c.c., il giudice accerti in concreto la sussistenza di una vera e propria subordinazione (nella specie esclusa da entrambi i gradi di merito con statuizione non impugnata dai lavoratori), rispetto alla quale non si porrebbe neanche un problema di disciplina incompatibile; è noto quanto le controversie qualificatorie siano influenzate in modo decisivo dalle modalità effettive di svolgimento del rapporto, da come le stesse siano introdotte in giudizio, dai risultati dell’istruttoria espletata, dall’apprezzamento di talemateriale effettuato dai giudici del merito, dal convincimento ingenerato in questi circa la sufficienza degli elementi sintomatici riscontrati, tali da ritenere provata la subordinazione; il tutto con esiti talvolta difformi anche rispetto a prestazioni lavorative tipologicamente assimilabili, senza che su tali accertamenti di fatto possa estendersi il sindacato di legittimità.

43. Del resto la norma in scrutinio non vuole, e non potrebbe neanche, introdurre alcuna limitazione rispetto al potere del giudice di qualificare la fattispecie riguardo all’effettivo tipo contrattuale che emerge dalla concreta attuazione della relazione negoziale, e, pertanto, non viene meno la possibilità per lo stesso di accertare l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, secondo i criteri elaborati dalla giurisprudenza in materia, trattandosi di un potere costituzionalmente necessario, alla luce della regola di effettività della tutela (cfr. Corte Cost. n. 115 del 1994) e funzionale, peraltro, a finalità di contrasto all’uso abusivo di schermi contrattuali perseguite dal legislatore anche con la disposizione esaminata (analogamente v. Cass. n. 2884 del 2012, sul D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 2, in tema di associazione in partecipazione).

44. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, stante la loro stretta connessione.

45. Con il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., in correlazione con l’art. 111 Cost.. La motivazione sarebbe caratterizzata da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili. La sentenza sarebbe giunta alla sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 2, dopo aver descritto le modalità di espletamento della prestazione da parte degli appellanti in termini tali (libertà di dare la disponibilità ai turni, libertà di non presentarsi all’inizio del turno senza previa comunicazione e senza sanzione) da escludere alla radice l’etero-organizzazione, come poi delineata e assunta a base della sussunzione.

46. Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, in relazione al requisito della etero-organizzazione. L’errore che nel secondo motivo si rifletterebbe sulla motivazione è qui denunciato direttamente come di errore di sussunzione e dunque come violazione di legge.

47. In realtà con il secondo motivo, pur se esso viene presentato come error in judicando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce un vizio di nullità della sentenza, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014), dolendosi la ricorrente di un contrasto irriducibile tra affermazioni della sentenza impugnata che sarebbero tra loro inconciliabili, in particolare in relazione a due dati funzionali all’accertamento della etero-determinazione dei tempi e dei luoghi di lavoro dalla sentenza ritenuti decisivi, cioè, da una parte il “fattore tempo”, in particolare con riguardo alla circostanza che, secondo la Corte di appello “Gli appellanti… lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dall’appellata” e, d’altra parte, al fattore “luogo della prestazione”, giacchè la stessa sentenza riconosce che i lavoratori dovevano recarsi all’orario di inizio del turno in una delle tre zone di partenza definite ((OMISSIS)).

48. Sotto il primo profilo si fa valere che la stessa sentenza impugnata aveva riconosciuto che, pur trattandosi di fasce orarie predeterminate dalla società, questa non aveva il potere di imporre ai lavoratori di lavorare nei turni in questione o di non revocare la disponibilità data, oltre al fatto che si ammette nella sentenza della Corte territoriale che i lavoratori erano liberi di dare la propria disponibilità per i vari turni offerti dall’azienda, e che la stessa Corte aveva pure accertato l’insussistenza di un potere gerarchico disciplinare da parte della società nei confronti degli appellanti, giacchè quest’ultima non aveva mai adottato sanzioni disciplinari a danno dei lavoratori anche se questi dopo aver dato la loro disponibilità la revocavano (funzione swap) o non si presentavano a rendere la prestazione (no show).

49. Sotto il secondo profilo, la ricorrente fa valere che la possibilità per il lavoratore di recarsi in una qualsiasi delle tre piazze indicate evidenziava che la scelta del luogo non era imposta dalla società.

50. Come si è notato, gli stessi elementi vengono valorizzati come vizio di sussunzione nella fattispecie disciplinata dal D.Lgs. n. 81, art. 2, comma 1, come interpretato dalla Corte di appello, e quindi come violazione di legge.

51. A parere della Corte le critiche mosse con le due doglianze in esame non valgono a censurare efficacemente la sentenza impugnata, che ha individuato l’organizzazione impressa ai tempi e al luogo di lavoro come significativa di una specificazione ulteriore dell’obbligo di coordinamento delle prestazioni, con l’imposizione di vincoli spaziali e temporali emergenti dalla ricostruzione del regolamento contrattuale e delle modalità di esecuzione delle prestazioni. In particolare, sotto il primo profilo, valorizzando l’impegno del lavoratore, una volta candidatosi per la corsa, ad effettuare la consegna tassativamente entro 30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo, sotto comminatoria di una penale. Sotto il secondo profilo, dando peso alle modalità di esecuzione della prestazione, in particolare:

– all’obbligo per ciascun rider di recarsi all’orario di inizio del turno in una delle zone di partenza predefinite e di attivare l’applicativo (OMISSIS), inserendo le credenziali e avviando la geolocalizzazione;

– all’obbligo, ricevuta sulla applicazione la notifica dell’ordine con indicazione dell’indirizzo del ristorante, di recarsi ivi con la propria bicicletta, prendere in consegna i prodotti, controllarne la corrispondenza con l’ordine e comunicare tramite apposito comando della applicazione il buon esito

dell’operazione;

– all’obbligo di consegna del cibo al cliente, del cui indirizzo il rider ha ricevuto comunicazione sempre tramite l’applicazione, e di conferma della regolare consegna.

52. Gli elementi posti in rilievo dalla ricorrente, se confermano l’autonomia del lavoratore nella fase genetica del rapporto, per la rilevata mera facoltà dello stesso ad obbligarsi alla prestazione, non valgono a revocare in dubbio il requisito della etero-organizzazione nella fase funzionale di esecuzione del rapporto, determinante per la sua riconduzione alla fattispecie astratta di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1.

53. Come si osservava, se l’elemento del coordinamento dell’attività del collaboratore con l’organizzazione dell’impresa è comune a tutte le collaborazioni coordinate e continuative, secondo la dizione dell’art. 409 c.p.c., comma 3, nel testo risultante dalla modifica di cui alla L. n. 81 del 2017, art. 15, comma 1, lett. a), nelle collaborazioni non attratte nella disciplina del D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti, mentre nel caso preso in considerazione da quest’ultima disposizione tali modalità sono imposte dal committente, il che integra per l’appunto la etero-organizzazione che dà luogo all’applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

54. La Corte territoriale ha individuato gli aspetti logistici e temporali dell’etero-organizzazione, facendo leva sulla dimensione funzionale del rapporto, e dandone conto con una motivazione coerente, esente dal “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” denunciato dalla ricorrente.

55. Non sussistono dunque nè il vizio di motivazione inferiore al “minimo costituzionale” (Cass., SU, n. 8053 del 2014, cit.) nè quello di sussunzione risolventesi in violazione di legge.

56. A conclusione della disamina dei primi tre motivi di ricorso deve osservarsi che, pur non avendo questo Collegio condiviso l’opinione della Corte territoriale quanto alla riconduzione dell’ipotesi prevista dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, a un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, e alla necessità di selezionare le norme sulla subordinazione da applicare, il dispositivo della sentenza impugnata deve considerarsi, per quanto detto, conforme a diritto, per cui la stessa sentenza non è soggetta a cassazione e la sua motivazione deve intendersi corretta in conformità alla presente decisione, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c., come richiesto dall’Ufficio del Procuratore Generale.

57. Non vi sono censure relative alle altre condizioni richieste per l’applicabilità del D.Lgs. n. 81

del 2015, art. 2, comma 1, cioè il carattere esclusivamente personale della prestazione e il suo svolgimento in maniera continuativa nel tempo.

58. A conclusione del ricorso, la ricorrente prospetta poi, come quarto motivo, una questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, in discorso se interpretato come norma di fattispecie, come norma cioè idonea a produrre effetti giuridici e a dar vita a un terzo genere di rapporto lavorativo, a metà tra la subordinazione e la collaborazione coordinata e continuativa. Sotto un primo profilo la ricorrente osserva che la delega contenuta nella L. n. 183 del 2014, avrebbe autorizzato il legislatore delegato a riordinare le tipologie contrattuali esistenti, ma non a crearne di nuove. Se interpretato nei termini tracciati dalla Corte d’appello di Torino, l’art. 2, si porrebbe dunque in contrasto con l’art. 76 Cost., in quanto esso violerebbe i limiti posti dal legislatore delegante. Inoltre, sotto un secondo profilo, tale lettura renderebbe l’art. 2, irragionevole e dunque in contrasto con l’art. 3

Cost., equiparando l’riders ai fattorini contemplati dalla contrattazione collettiva, a prescindere dalla effettiva equiparabilità delle mansioni svolte.

59. Sotto il primo profilo, la questione sollevata non ha più ragione di essere, avendo questa Corte ritenuto il D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, norma di disciplina e non norma di fattispecie, dovendosi escludere che essa abbia dato vita ad un tertium genus, intermedio tra la subordinazione ed il lavoro autonomo, per cui non può parlarsi di eccesso di delega, ben potendo inquadrarsi la norma in discorso nel complessivo riordino e riassetto normativo delle tipologie contrattuali esistenti voluto dal legislatore delegante.

60. Sotto il secondo aspetto, il Collegio non ravvisa alcun profilo di irragionevolezza nella scelta del legislatore delegato di equiparare, quanto alla disciplina applicabile, i soggetti di cui al D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 2, comma 1, ai lavoratori subordinati, nell’ottica della tutela di una posizione lavorativa più debole, per l’evidente asimmetria tra committente e lavoratore, con esigenza di un regime di tutela più forte, in funzione equilibratrice.

61. Le questioni di costituzionalità sollevate devono dunque ritenersi manifestamente infondate.

62. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

63. L’assoluta novità della questione giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. n. 162 del 2014.

64. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115

del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2020

Offline il sito dell’INPS, l’opinione di un quadro informatico.

In questi giorni, abbiamo assistito al default del sito informatico dell’INPS che ha causato nell’ambito della situazione di emergenza dovuta al Coronavirus un ulteriore emergenza che ha impedito la distribuzione degli aiuti economici stabiliti dal Governo.
Per capire almeno alcune delle ragioni che non permettono a queste strutture di funzionare correttamente, pubblichiamo la testimonianza di un quadro informatico di un ente previdenziale.
Come vedremo, alla vicenda personale di mortificazione della professionalità, si accompagnano scelte aziendali che non sempre appaiono corrette.
Pubblichiamo questa esperienza , non per polemica, in questo momento non ce ne sarebbe proprio bisogno, ma perché in futuro la professionalità acquisita non venga trascurata e sprecata.

UN PO’ DI STORIA
L’informatizzazione dell’ente inizia nel 1983 con il cosiddetto Nuovo Sistema Informativo.
Questo prevedeva, oltre all’informatizzazione delle aree istituzionali (“premi” e “prestazioni”), la creazione di un CED per ciascuna sede territoriale e l’installazione di uno o due “mainframe” (i cosiddetti sistemi dipartimentali”, IBM 8100 prima con sistema operativo DPCX e, in seguito IBM 9370 con sistema operativo DPPX) e di un terminale “stupido” con relativa stampante per ciascun utente amministrativo.
Nei CED erano previsti 2 “operatori di controllo” per ciascun sistema dipartimentale. A ………, dove cominciai ad operare, eravamo in 4 per la sola sede di ……….
Gli “operatori” vennero selezionati su base volontaria attraverso quiz psico-attitudinali (quelli classici che la IBM allora somministrava per selezionare il proprio personale). Per essere ammessi alla selezione bisognava dichiarare in forma scritta l’impegno, in caso di esito positivo, di frequentare i successivi corsi di formazione e le successive selezioni (successivamente fu illegittimamente inibito agli informatici, per salvaguardare l’investimento in formazione fatto su di loro, di accedere alle selezioni per ispettori di vigilanza, in pratica “bloccandoli” nel profilo in maniera discriminatoria). Ai quiz seguiva il corso selettivo di tre settimane consecutive a Roma, presso il “Servizio Meccanizzazione” , Direzione Centrale per l’Organizzazione Digitale). La selezione consisteva nell’invio ai corsi del doppio del personale necessario che veniva poi dimezzato attraverso una esame finale. Una selezione seria, dunque!
Già allora, per il merito delle problematiche trattate, il rapporto tra il personale informatico “periferico” e la direzione centrale tendeva ad essere diretto e non mediato gerarchicamente dalle direzioni (allora “ispettorati”) regionali e le direzioni delle unità di appartenenza (sedi).
I direttori delle sedi, poco collaborativi e generalmente chiusi al cambiamento, mal digerivano quello che interpretavano come un eccesso di indipendenza e si opponevano al fatto che il personale migliore venisse sottratto al buco nero burocratico-amministrativo, ponendo in atto resistenze passive di ogni genere attraverso atteggiamenti contraddistinti da ignoranza, arroganza, supponenza, ignavia, negligenza. Esercitarono pressioni corporative anche sul Direttore Generale che, per ridimensionare lo “scandalo” della presenza di questo personale selezionatissimo e “anarchico”, fino ad indurlo a scrivere una lettera, infarcita di ambiguità , dove tra le righe apriva ad una possibilità di utilizzo del personale informatico “anche” sul fronte amministrativo (i “tempi morti”, fisiologici in un CED, che morti non sono affatto perché sono lo spazio per elaborare soluzioni che richiedono impegno mentale, venivano interpretati, nella loro visione tradizionalmente asfittica che non concepisce necessario il “pensare”, come dolce far niente in orario d’ufficio). Ricordo, di quell’antica lettera la frase-cerniera, “onde non rimanere avulsi dal contesto produttivo”, come se gli informatici non producessero nulla, come se non fossero, se non gli unici, tra i pochi, ad avere una visione globale dei problemi da quell’osservatorio privilegiato che si era rivelato il CED, come se non fossero il motore concreto di un cambiamento epocale nel modo di lavorare.
Questa strategia di corto respiro e, soprattutto, inutile portò al consolidamento del legame con la Direzione Centrale e con le énclave più illuminate di questa, creando una sorta di legame cameratesco con colleghi e dirigenti contraddistinto da orizzontalità, degerarchizzazione pur nel rispetto dei ruoli, spirito di corpo. Il “tu” era d’uso, come negli ambienti IBM, e nelle molteplici occasioni in cui si andava a Roma ci si trovava anche fuori dalle mura dell’Istituto. Con alcuni elementi del mitico Punto Assistenza Utenti, tutti ormai in pensione da anni, grazie anche ai “social”, esistono ancora oggi rapporti da “commilitoni”.
Ovviamente non fu per tutti così, alcuni colleghi, soprattutto in realtà più provinciali (come quella , dove opero dal 1991,), non seppero contrastare adeguatamente le pressioni dei direttori di sede e accettarono di svolgere, a latere di un lavoro già impegnativo, anche lavoro amministrativo. Quivi u collega , come tutto ringraziamento per essersi occupato anche di rendite, fu deferito alla Corte dei Conti e si vide per anni la liquidazione bloccata). Come era prevedibile ne uscì pulito, visto che la causa del danno erariale era da ascriversi non al suo operato, bensì a patologie organizzative endemiche, ma non ripagato a sufficienza né del lavoro svolto, né dei patemi subiti.
Questo legame diretto con la direzione centrale, come vedremo in seguito, da via di fuga si trasformerà in un boomerang e, comunque, ha rappresentato fin dall’inizio una ulteriore patologia organizzativa che si cronicizzerà. Grazie al combinato disposto di questa doppia stortura, i problemi informatici erano (e sono) percepiti come problemi esclusivi “degli informatici” e basta, e non della struttura di appartenenza. Addirittura la gestione di parte degli approvvigionamenti del materiale di consumo (ad es. nastri e cartucce per stampanti, diversamente da quanto accadeva per la carta e le penne) avveniva (e in molte realtà ancora avviene) a cura dei CED e non di quelli che, al tempo, si chiamavano economati). Fin da allora, e proprio grazie agli atteggiamenti di coloro che sembrava auspicassero il contrario, avveniva la trasformazione di fatto del CED in “corpo separato” a cui tutto chiedere e nulla dare in termini di logistica e sinergie organizzative, salvo far valere la gerarchia ove ve ne fosse necessità: il CED già da allora percepito come “appaltatore” dei sevizi informatici e non già come momento organizzativamente e logisticamente coordinato con il resto della struttura.
I RAPPORTI CON I COLLEGHI
La questione dei “fannulloni” (Brunetta) e/o “nullafacenti” (Ichino) non nasce per caso o per invenzione: insufficienze logistico-organizzative, modalità di selezione del personale ingerenze indebite e abusive da parte di elementi politici (e conseguenti cattivi esempi) hanno, nel tempo, portato il personale ad assumere modalità di adattamento al “sistema” tali da legittimare e garantire, pro domo sua, sempre il massimo rendimento con il minimo sforzo ed evitare il rischio di “sovraesposizione”. Il motto potrebbe essere “sbaglia chi lavora e io non sbaglio mai”.
Quale alibi migliore dunque dell’informatica che non funziona? Come recita un saggio proverbio piemontese “Na cativa lavandera a treuva mai na bona pera” (la cattiva lavandaia non trova mai la buona pietra). Peccato che a fare da parafulmine fossero (e sono) gli informatici, sia per i malfunzionamenti endemici all’INAIL, sia per la strumentalizzazione di questi.
Un illuminante aforisma dice: “Quando gli altri non sanno ciò che tu sai, tu non sai niente”. Quando a non sapere ciò che tu sai è il tuo responsabile il clima si fa pesante.
Il rapporto con i dirigenti normalmente si manifesta in due modalità tipiche, opposte ma entrambe esiziali. La prima consiste nella pretesa di fare i controllori con gli strumenti che man mano ti mette a disposizione il controllato; la seconda, più subdola, nel “dare carta bianca” per non assumersi nemmeno le responsabilità di carattere generale e/o liminare.
Il rapporto con i colleghi amministrativi è ancora più scivoloso. A parte rare eccezioni la norma consiste nello spacciare per “tecnico” e quindi di competenza dell’informatico, ogni problema di tipo pratico o gestionale, dalla sostituzione della cartuccia di toner fino all’uso di un programma applicativo o di una procedura informatizzata nella quale l’informatico non può nemmeno entrare perché, correttamente, non abilitato. Il problema non è tanto quello di ricordare agli interessati, anche a muso duro, che sono affari loro, ma di ricevere comunque venti telefonate e discutere venti volte, quando solo una o due di quelle telefonate sono pertinenti. Dati i presupposti non si tratta mai di telefonate “serene”.
I peggiori sono quelli che o perché sanno che verranno mandati al diavolo o perché non vogliono assumersi la piena responsabilità della loro accidia, vanno dal direttore. Questi ovviamente chiama l’informatico e, dopo aver ottenuto la spiegazione, chiede “per favore” di mettere in condizione il collega, solitamente un caso umano, di operare, o di smascherare l’alibi. Questo comporta ovviamente il dover affrontare tensioni interpersonali delle quali chi ha scelto di occuparsi di questioni tecniche non è tenuto a occuparsi, il dover assistere, in alcuni casi a scenate isteriche, pianti e sceneggiate invereconde.
Vi è inoltre la pretesa che l’informatico supplisca a formazione, informazione, addestramento carenti o del tutto inesistenti (grottesco dopo oltre quindici anni di formazione negata).
Solitudine, incomprensione, carico mentale (elaborare soluzioni a problemi è diverso che passar carte!), carico psicologico da oggettive difficoltà relazionali diventano il leitmotiv di una funzione che dovrebbe essere esclusivamente tecnica!
RIPRENDIAMO LA STORIA
Intanto l’informatica continuava ad evolversi. All’inizio degli anni ’90 ai vecchi mainframe vennero affiancati sottosistemi UNIX per la gestione delle azioni di rivalsa (progetto “polaris”) e di quella che poi sarebbe diventata la “gestione documentale”), ai terminali stupidi vennero sostituiti dei personal computer con sistema operativo windows 3.1 e subito dopo windows ’95, comparvero i primi collegamenti internet, su rete ISDN e i primi indirizzi di posta elettronica, abusivi e artigianali, implementati a cura dei CED (su sollecitazione impropria della dirigenza) grazie ai servizi offerti da provider gratuiti tipo “libero” (bisognava “far vedere” all’“esterno” che si era “avanti”).
Sempre pressati da un surplus di lavoro derivante dai rapporti distorti con i colleghi e con la dirigenza, gli informatici si trovarono a lavorare dovendo dominare contemporaneamente almeno sette sistemi operativi diversi (DPPX, dos, windows 3, windows 95, due versioni di UNIX, OS2 IBM…) in un clima di solitudine oppressiva e quasi di ostilità da parte dei colleghi che opponevano fiera resistenza ad ogni evoluzione e ad ogni richiesta di farsi parte attiva del cambiamento.
Intanto, a peggiorare una situazione già critica, cominciava il turn-over della prima generazione di informatici. A Roma il PAU spariva ed iniziavano le esternalizzazioni, nel silenzio di sindacati sospettabili di collusione, per la “periferia”, a parte un concorso, si continuava a pescare dalla lista dei test psico-attitudinali senza comprendere che non si trattava di una graduatoria di “idonei” e che sotto un certo punteggio esisteva l’inidoneità certificata.
Mi accorsi che molte operazioni qualificanti, demandate al centro, potevano essere compiute in periferia e ne parlai con alcuni interlocutori qualificati. La versione corrente era che non si potessero affidare compiti delicati a persone che “avrebbero fatto danno”, visti gli ultimi ingressi nei CED (sì, ma perché li hanno selezionati?). Ma forse si voleva solo affidare alle società esterne per motivi non sempre chiari l’attività(i progetti avviati intanto fallivano aprendo una ponderosa stagione di scandali con tanto di arresti).
Le esternalizzazioni intanto continuavano, il monopolio IBM-Olivetti-Telecom si sgretolava e si affacciavano alla ribalta sempre più numerosi soggetti esterni, spesso, si dice, nati ad hoc, ai quali veniva affidata la migrazione delle procedure istituzionali da mainframe ad archittettura “client-server”. Questa prima migrazione avveniva affidando a diverse società esterne la riscrittura delle procedure senza che questi soggetti colloquiassero tra di loro. Si arrivò al punto di non poter caricare più procedure sullo stesso pc e all’impossibilità di avere una configurazione standard per tutti i pc, e questo creò problemi logistico organizzativi enormi in periferia, dove, si dovevano rattoppare le carenze centrali con soluzioni subottimali e di corto respiro. Le soluzioni e gli adattamenti per rimediare a quella “sommarietà” romana che poi sarebbe diventata la regola, dipendevano quindi esclusivamente dagli informatici “periferici” sui quali ricadeva l’onere di far funzionare tutto nonostante tutto. I corsi di aggiornamento e i viaggi verso Roma diminuirono fino ad azzerarsi completamente e, in periferia ormai ci si doveva affidare pressoché esclusivamente all’esperienza dei singoli e alla buona volontà.
Finalmente questa fase finì e si arrivo alla migrazione delle procedure su piattaforma web. Nel frattempo i sistemi dipartimentali, i mainframe, erano stati dismessi.
Gli informatici periferici non vennero più rimpiazzati e a quelli rimasti vennero affidati i compiti “residuali”, quello che al netto di qualsiasi eufemismo, si è soliti chiamare “lavoro di merda”. Dequalificazione professionale e demansionamento avanzavano spediti e inesorabili.
I RAPPORTI CON LE SOCIETA’ ESTERNE
Se dal punto di vista sindacale sull’argomento vi sarebbe molto da dire, la scelta di esternalizzare dal punto di vista aziendale è una scelta come un’altra.
Una corretta logica però avrebbe voluto che le società esterne operassero sul territorio coordinate e controllate da nostro personale. Nonostante gli informatici territoriali si relazionassero quotidianamente con le società esterne questo non è avvenuto. Si è preferito, come ho già detto, depauperare un personale altamente qualificato di mansioni e funzioni, ponendolo sullo stesso piano del personale esterno, ferme restando però le responsabilità legate alla “funzione pubblica”. I compiti del personale INAIL sono di fatto diventati indistinguibili da quelli degli addetti esterni, così che taluni lavori rischiano di essere pagati due volte, una volta attraverso il corrispettivo del contratto con la società esterna, un’altra con lo stipendio del funzionario. Nessuno, nemmeno il sindacato, ha fatto chiarezza su questo delicatissimo aspetto.
Al momento attuale, a livello di Direzione Centrale , il rapporto con gli esterni è quello corretto, in quanto questi sono controllati e coordinati dai nostri, mentre il rapporto tra informatici periferici e esterni non lo è. Costoro si permettono di scrivere e telefonare ai nostri funzionari sul territorio impartendo disposizioni di fatto, imponendo scadenze, modalità e metodi come se fossero elementi gerarchicamente sovraordinati. Quando ho scoperto e mi sono opposto al giochetto è stato tutto un piagnucolare e un ricorso alla retorica della “collaborazione”, e del “tavolo di lavoro”, favolette a cui possono credere solo gli ingenui, che tra gli informatici, sono molti.
Un esempio per capire: la gestione della telefonia IP. Quando i telefoni tradizionali vennero sostituiti da telefoni IP nulla funzionava a dovere. Il numero dell’help-desk a cui rivolgersi in caso di malfunzionamenti era (ed è) lo 06 ……….. Ovviamente i colleghi preferivano rivolgersi agli informatici presenti in loco e dovetti affrontare una non facile campagna di persuasione per far sì che si rivolgessero direttamente a chi di dovere, visto che per questo era (è) pagato. Poiché il più delle volte, per risolvere i problema, si doveva eseguire qualche modesta operazione sugli apparecchi telefonici o sugli switch, gli operatori del servizio fonia, dopo aver ricevuto la telefonata dall’utente in difficoltà e preso in carico il problema, constatata l’incapacità di questi di eseguire quelle banali operazioni richieste, telefonavano a noi del CED chiedendo, appunto, “collaborazione”. Alla fine sulla carta figurava che quegli interventi erano stati presi in carico e risolti dalla società esterna preposta (tanto di numero di ticket registrato), mentre il lavoro lo facevamo, per loro, noi funzionari. Quando, polemicamente, scrissi una mail chiedendo copia del contratto al fine di capire se stavo, in quei momenti, lavorando per il mio ente o per una società esterna che non era in grado di far fronte ai sui compiti, visto che le richieste di “collaborazione” erano diventate pressanti e quotidiane, scoppiò il finimondo e il risultato fu che a me non telefonarono più preferendo rivolgersi esclusivamente ad altri collega giudicati più malleabili. A quel punto promossi un’inversione di rotta: invitai i colleghi amministrativi a non comporre più il numero di Roma, ma a rivolgersi nuovamente al CED, insegnai a molti di loro come risolvere i problemi più comuni e feci calare drasticamente il numero dei ticket aperti, se non altro per onorare un principio di realtà.
LA “SPENDING REWIEW” E IL NUOVO MODELLO ORGANIZZATIVO
Il sottotitolo potrebbe essere “cornuti e mazziati”.
Quando il governo Monti, con la “spending review” impose alla amministrazioni dei tagli alla spesa, il nostro ente sempre zelante nei confronti del potere, decise di eliminare gli informatici periferici e di chiudere i CED lasciando solo un “processo informatico” a livello di direzione regionale. Particolarmente zelante e attivo e attento (fino alla petulanza) nel perseguire il nobile obiettivo fu un personaggio di estrazione sindacale pervenuto alle vette dell’ente.
Se dal punto di vista sindacale la chiusura dei CED periferici poteva costituire un problema (risolvibile con i pensionamenti grazie al saggio attendismo strategico dei sindacati e di parte della dirigenza centrale), in una prospettiva di seria riorganizzazione aziendale risponde indiscutibilmente ad una logica di razionalizzazione. Le procedure di lavoro stavano migrando su piattaforma “web”, i server sparivano dai CED e venivano accentrati e “virtualizzati” e i “client” si “alleggerivano”.
Con una buona politica di investimento e riqualificazione delle risorse umane residue, con una esternalizzazione puntuale che prevedesse un rapporto diretto, tramite call center tra utenti amministrativi e società esterne, si sarebbe potuto progettare un percorso virtuoso per conferire agli informatici periferici un ruolo di coordinamento, studio, elaborazione di soluzioni organizzative, funzioni di auditing per orientare la platea degli utenti ad un corretto uso delle risorse informatiche, soprattutto in collaborazione con il professionista della CIT (presente in ogni direzione regionale ma dipendente direttamente da un coordinatore “romano”), sgravandoli del “lavoro di merda”. Si è preferito invece puntare sui “sopravvissuti” per colmare la sommarietà con cui venivano licenziate le novità tecnologiche. E’ come se Una casa automobilistica rilasciasse delle vetture difettose scaricando consapevolmente i problemi su un concessionario privo di mezzi. Insomma, funzionari apicali trasformati in ordinari sbrigafaccende privi di strumenti a disposizione di chiunque per risolvere i problemi più disparati all’interno di una catastrofe organizzativa ormai endemica sulla quale sarebbe opportuno accendere dei potenti riflettori a vari livelli.

Un progetto di legge contro il mobbing

Un progetto di legge per affrontare il mobbing.

Una fattispecie difficile da inquadrare e soprattutto da provare.

Il progetto di legge favorisce la prova.

CAMERA DEI DEPUTATI

N. 1741

PROPOSTA DI LEGGE

D’INIZIATIVA DEI DEPUTATI

DE LORENZO, VIZZINI, PALLINI, SIRAGUSA, GIANNONE, SEGNERI, COSTANZO, CIPRINI, BILOTTI, CUBEDDU, TRIPIEDI, TUCCI, INVIDIA, DAVIDE AIELLO, PERCONTI, AMITRANO

delle molestie morali e delle violenze psicologiche in ambito lavorativo

Presentata il 4 aprile 2019

ONOREVOLI COLLEGHI! – Il fenomeno del cosiddetto «mobbing» o della persecuzione psicologica, cioè le molestie morali e le violenze psicologiche, è sempre esistito nel mondo del lavoro, ma ora tale fenomeno sta assumendo contorni sempre più ampi.

Con la presente proposta di legge intendiamo fornire per la prima volta ai lavoratori adeguati e idonei strumenti di tutela per difendere se stessi e la propria dignità dalle continue vessazioni che sono costretti a subire in ambito lavorativo. Vista la crescita esponenziale che caratterizza i casi di mobbing è necessario un intervento ad hoc del legislatore diretto a disciplinare in maniera chiara e precisa tale fenomeno e ad assicurare una vera e propria tutela giuridica ai lavoratori vessati, consentendo loro di far valere la lesione di un proprio diritto, agendo dinanzi al giudice del lavoro nei confronti del datore di lavoro (nel caso di mobbing verticale) o nei confronti di un proprio collega o di un gruppo di colleghi (nel caso di mobbing orizzontale) che si siano resi autori di atti vessatori in ambito lavorativo.

Va peraltro ricordato che la nozione dell’Unione europea di discriminazione comprende le molestie e l’ordine di discriminazione (a prescindere dalla sua esecuzione) a causa dei motivi tipizzati: «le molestie sono da considerarsi una discriminazione in caso di comportamento indesiderato adottato e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo».

Sotto il profilo pratico, l’equiparazione della molestia alla discriminazione consente l’applicazione del regime probatorio agevolato e dell’apparato sanzionatorio particolarmente incisivo previsto dalla disciplina antidiscriminatoria.

Si deve a Leymann l’introduzione del mobbing nel settore lavorativo, a partire dagli anni ’80 (Leymann Gustavsson, 1984; Leymann, 1990, 1993, 1996, 1997). Secondo tale autore «il mobbing, o terrore psicologico sul posto di lavoro, consiste in una comunicazione ostile e non etica diretta in modo sistematico da uno o più individui solitamente verso un singolo individuo, il quale a causa di ciò, si trova in una posizione indifesa e impossibilitato a ricevere aiuto, essendo costretto in quella posizione da continue azioni mobbizzanti (…). Tali azioni si verificano con un’alta frequenza di base (definizione statistica: almeno una volta a settimana) e perdurano a lungo nel tempo (definizione statistica: almeno sei mesi). L’alta frequenza e la durata dei comportamenti ostili è causa di gravi problemi psicologici, psicosomatici e sociali» (Leymann, 1996, pagina 168).

La presente proposta di legge si compone di nove articoli.

L’articolo 1 individua l’ambito di applicazione della legge, il cui fine è quello di tutelare i lavoratori nei rapporti di lavoro, nei settori pubblico e privato, indipendentemente dalla natura degli stessi.

L’articolo 2 definisce il concetto di mobbing, ovvero le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate con intento vessatorio, iterativo e sistematico, che determinano eventi lesivi dell’integrità psico-fisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima, nonché le modalità attraverso le quali tali azioni sono poste in essere.

L’articolo 3 prevede l’obbligo tempestivo del datore di lavoro di accertare i comportamenti denunciati e di prendere provvedimenti per il loro superamento, segnalandoli anche alla procura della Repubblica, qualora le azioni di mobbing comportino una riduzione della capacità lavorativa per disturbi psico-fisici di qualsiasi entità, quali depressione, disturbi psico-somatici conseguenti a stress lavorativo come l’ipertensione, l’ulcera e l’artrite, disturbi allergici, disturbi della sfera sessuale, nonché tumori. Il datore di lavoro che, per dolo o negligenza, non ottemperi ai suoi doveri accertativi e denuncianti, è soggetto all’interdizione dai pubblici uffici o al licenziamento, in ottemperanza all’articolo 28 del codice penale e, in via subordinata, alle misure previste per i diversi livelli di responsabilità agli articoli 55, commi 1 e 3, 56, 58, e 302, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, ovvero all’arresto da tre a sei mesi e alle relative ammende.

L’articolo 4 prevede l’azione di tutela giudiziaria, ovvero un percorso attraverso il giudizio immediato del tribunale del lavoro in caso di mobbing, nei confronti del dipendente, configurabile in azioni quali: a) rimozione da incarichi; b) esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendali; c) svalutazione sistematica dei risultati, attraverso il sabotaggio del lavoro, svuotato dei contenuti o privato degli strumenti necessari al suo svolgimento; d) sovraccarico di lavoro o attribuzione di compiti impropri o inattuabili in concreto, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione; e) attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute; f) squalificazione dell’immagine personale e professionale.

L’articolo 5 disciplina la pubblicità del provvedimento di condanna emesso dal giudice.

L’articolo 6 prevede che gli atti posti in essere dal datore di lavoro, nonché i provvedimenti assunti, riconducibili alle azioni di cui all’articolo 2, accertate dal giudice del lavoro ai sensi dell’articolo 4, vengano annullati. L’annullabilità degli atti è applicata anche nel caso in cui la violenza o la persecuzione psicologica abbia comportato le dimissioni del lavoratore che, conseguentemente, ha diritto al reintegro nel posto di lavoro.

L’articolo 7 introduce una tutela penale specifica alla luce degli interessi coinvolti e della necessità di una protezione forte, che garantisca un effettivo contrasto del fenomeno. I traumi originati dal mobbing turbano in maniera profonda l’equilibrio psico-fisico dei lavoratori e ne distruggono le relazioni, portando spesso a esiti irreversibili. È proprio un attacco così profondo all’interesse tutelato che giustifica l’adozione di misure penali.

Gli elementi costitutivi del fenomeno sono il contesto lavorativo, l’obiettivo vessatorio e il suo protrarsi sistematico. Esso si concretizza in una serie di comportamenti, quali: abuso del potere disciplinare, attraverso l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, come reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, tutte finalizzate alla estromissione del soggetto dal posto di lavoro; atti persecutori e di grave maltrattamento di fronte a terzi; molestie sessuali; offese alla dignità personale, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro. La nuova fattispecie deve colpire le condotte caratterizzate da sistematicità, durata e intensità, con intento persecutorio, in modo tale da escludere dall’ambito di rilevanza penale gli episodi irrilevanti e isolati. Per dare rilievo penale al mobbing nella sua interezza, è necessario ricorrere a un reato abituale, che abbia quindi come sua caratteristica intrinseca la ripetitività nel tempo della condotta. Si tratta, invero, di un reato di relazione, nell’ambito del quale non assume valore la rilevanza penale dei singoli episodi, bensì la loro reiterazione, che cagiona la compromissione della relazione.

L’elemento oggettivo del reato consiste, dunque, in più atti o comportamenti protratti nel tempo, compiuti da chi presti lavoro in un dato ambito, pubblico o privato, in pregiudizio di altri, appartenente allo stesso ufficio o alla stessa azienda, e che può essere un subordinato ma anche un pari grado dell’agente. Deve, poi, trattarsi di un reato doloso.

In relazione all’interesse di maggior rilievo che la disposizione penale intende essenzialmente tutelare, rappresentato dalla libertà e dalla dignità del lavoratore nel luogo e nell’ambiente di lavoro in cui opera, la norma va inserita nel libro secondo («Dei delitti in particolare»), titolo XII (Dei delitti contro la persona), capo III («Dei delitti contro la libertà individuale»), sezione III («Dei delitti contro la libertà morale»), del codice penale. Ciò in quanto i comportamenti di mobbing incidono, in primo luogo, sulla capacità del soggetto preso di mira di autodeterminarsi spontaneamente, costringendolo in una situazione di soggezione a condizioni di lavoro insopportabili, in termini di umiliazione e di sofferenza, e lesive dei suoi diritti o interessi.

In particolare, la norma viene inserita immediatamente dopo l’articolo 612-bis del codice penale che, introdotto dall’articolo 7 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, contempla il reato di atti persecutori, comunemente chiamato stalking. Ciò in quanto le due fattispecie presentano molte affinità, tanto che parte della dottrina ha ventilato la possibilità di ricorrere all’articolo 612-bis per sanzionare penalmente le vessazioni sul lavoro. In entrambi i casi, infatti, si tratta di fenomeni basati sulla reiterazione delle condotte, che consistono in vessazioni sgradite alla vittima e sono causa di eventi negativi. Sono accomunati, poi, dalla finalità che è quella di indurre il soggetto passivo in uno stato di soggezione e di sofferenza psico-fisica. Alla pluralità e alla costanza delle condotte deve essere sottesa la consapevolezza dell’agente sia della molteplicità degli episodi sia dell’invasione che per mezzo di essi si determina nella sfera della vita della vittima. Esiste, inoltre, nella realtà una fattispecie di confine: il cosiddetto «stalking occupazionale», una tipologia di persecuzione che trova le sue motivazioni nell’ambiente lavorativo, per poi fuoriuscirne, turbando in maniera invasiva la tranquillità della vita privata della vittima.

L’articolo 8 reca misure di prevenzione e di vigilanza nei luoghi di lavoro. In particolare, si prevede che le amministrazioni dello Stato e i datori di lavoro pubblici e privati, d’intesa con le rappresentanze sindacali e con i consigli centrali, intermedi e di base dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, adottano tutte le seguenti misure volte a prevenire e a contrastare le azioni di mobbing: a) iniziative periodiche di informazione dei dipendenti; b) organizzazione periodica di corsi specifici di gestione delle relazioni interpersonali o del mobbing affidati a consulenti, anche esterni, muniti dell’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo e di un’ampia e comprovata esperienza specifica nel settore della psicologia del lavoro; c) accertamento di azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori; d) corsi di prevenzione e di informazione sulle azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori, obbligatori e a carico del datore di lavoro per i dirigenti, per i medici competenti e per i responsabili della sicurezza aziendale, nonché per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza; e) risoluzione delle controversie tramite la stipulazione di appositi accordi transattivi o conciliativi; f) denuncia alle autorità competenti.

Al comma 2 del medesimo articolo 8 si prevede l’istituzione, presso ciascuna azienda sanitaria locale, di un centro di riferimento per il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro, costituito da specialisti di salute mentale, anche interni alla medesima azienda sanitaria locale.

Al comma 3 si prevede che i citati specialisti provvedano:

a) all’accertamento dello stato di disagio psico-sociale o di malattia del lavoratore e all’eventuale indicazione del percorso terapeutico di sostegno, cura e riabilitazione;

b) all’individuazione delle eventuali misure di tutela da adottare da parte dei datori di lavoro nelle ipotesi di casi rilevati di disagio lavorativo.

Il centro di riferimento è tenuto ad organizzare una conferenza annuale per valutare i risultati del lavoro svolto e per individuare le opportune iniziative per la riduzione o l’eliminazione delle azioni di mobbing (comma 3).

L’articolo 9 prevede l’invarianza finanziaria.

Ecco il testo:

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1.

(Ambito di applicazione)

1. La presente legge, in attuazione dei princìpi stabiliti dagli articoli 2, 32, 35 e 41 della Costituzione, reca disposizioni atte a prevenire e a contrastare il mobbing posto in essere nei confronti dei lavoratori da parte del datore di lavoro o di un suo preposto, nonché da altri dipendenti.

2. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano a qualsiasi rapporto di lavoro e in tutti i settori di attività privati e pubblici, indipendentemente dalla mansione svolta o dalla qualifica ricoperta.

Art. 2.

(Definizioni)

1. Ai fini di cui all’articolo 1, comma 1, si intendono per mobbing nel posto di lavoro le molestie morali e le violenze psicologiche di carattere persecutorio, esercitate esplicitamente o implicitamente, nonché direttamente o indirettamente, con intento vessatorio, iterativo e sistematico, che determinano eventi lesivi dell’integrità psico-fisica o della dignità sociale e lavorativa della vittima, configurabili nel modo seguente:

a) rimozione da incarichi;

b) esclusione dalla comunicazione e dall’informazione aziendali;

c) svalutazione sistematica dei risultati, attraverso il sabotaggio del lavoro, svuotato dei contenuti o privato degli strumenti necessari al suo svolgimento;

d) sovraccarico di lavoro o attribuzione di compiti impropri o inattuabili in concreto, che acuiscono il senso di impotenza e di frustrazione;

e) attribuzione di compiti inadeguati rispetto alla qualifica e alla preparazione professionale o alle condizioni fisiche e di salute;

f) abuso del potere disciplinare, attraverso l’esercizio da parte del datore di lavoro o dei dirigenti di azioni sanzionatorie, quali reiterate visite fiscali o di idoneità, contestazioni o trasferimenti in sedi lontane, rifiuto di permessi, di ferie o di trasferimenti, finalizzate all’estromissione del soggetto dal posto di lavoro;

g) atti persecutori e di grave maltrattamento di fronte a terzi;

h) molestie sessuali;

i) squalificazione dell’immagine personale e professionale;

l) offese alla dignità personale, attuate da superiori, da pari grado o da subordinati ovvero dal datore di lavoro.

Art. 3.

(Accertamento delle responsabilità e applicazione di sanzioni disciplinari)

1. Il datore di lavoro, pubblico o privato, qualora siano denunciate azioni di cui all’articolo 2 da singoli lavoratori o da gruppi di lavoratori, ovvero su segnalazione delle rappresentanze sindacali aziendali o del rappresentante per la sicurezza, nonché del medico competente, ha l’obbligo di accertare tempestivamente le azioni denunciate.

2. Agli effetti degli accertamenti delle responsabilità, l’istigazione e l’omissione consapevole dei soggetti denunciati sono considerate equivalenti alla realizzazione del fatto.

3. Il datore di lavoro pubblico o privato che, per dolo o per negligenza, non adempie ai commi 1 e 2 del presente articolo è soggetto all’interdizione dai pubblici uffici o al licenziamento, in ottemperanza all’articolo 28 del codice penale e, in via subordinata, alle misure previste per i diversi livelli di responsabilità dagli articoli 55, commi 1 e 3, 56, 58 e 302, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.

4. Il danno all’integrità psico-fisica provocato dalle azioni di cui all’articolo 2 è comunicato dall’autorità gerarchica competente, previo onere della prova inversa, alla competente procura della Repubblica quando comporta una riduzione della capacità lavorativa per disturbi psico-fisici di qualsiasi entità, quali depressione, disturbi psico-somatici conseguenti a stress lavorativo come l’ipertensione, l’ulcera e l’artrite, disturbi allergici, disturbi della sfera sessuale, nonché tumori.

Art. 4.

(Azioni di tutela giudiziaria)

1. Qualora siano denunciate, su ricorso del lavoratore o per sua delega dalle organizzazioni sindacali, azioni di mobbing, di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b), d), e) e i), il tribunale territorialmente competente, in funzione di giudice del lavoro, nei cinque giorni successivi alla data della denuncia, convocate le parti e assunte sommarie informazioni, se ritiene sussistente la violazione oggetto del ricorso ordina al responsabile del comportamento denunciato, con provvedimento motivato e immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo, ne dispone la rimozione degli effetti, stabilisce le modalità di esecuzione della decisione e determina in via equitativa la riparazione pecuniaria dovuta al lavoratore per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione del provvedimento. Contro la decisione di cui al primo periodo è ammessa, entro quindici giorni dalla data di comunicazione alle parti, opposizione davanti al tribunale, che decide in composizione collegiale, con sentenza immediatamente esecutiva. Si osservano le disposizioni degli articoli 413 e seguenti del codice di procedura civile.

2. Nei casi di cui al comma 1, primo periodo, è posto a carico di colui che è accusato di perpetrare una condotta di mobbing l’onere della prova, ossia la dimostrazione dell’inesistenza della predetta condotta o delle vessazioni lamentate, la legittimità dei comportamenti adottati e, nel caso del datore di lavoro, l’adeguatezza delle misure di prevenzione o di repressione impiegate, quando il lavoratore ha presentato indizi sufficienti per lasciare presumere l’esistenza di una forma di violenza o di persecuzione psicologica ai suoi danni.

Art. 5.

(Pubblicità del provvedimento del giudice)

1. Su istanza della parte interessata, il giudice può disporre che della sentenza di accoglimento, ovvero di rigetto, di cui all’articolo 4, sia data informazione, a cura del datore di lavoro, pubblico o privato, mediante lettera ai lavoratori interessati dell’unità produttiva o amministrativa nella quale è stato denunciato l’atto o il comportamento di mobbing oggetto dell’intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subìto tale atto o comportamento.

2. Se l’atto o il comportamento oggetto del provvedimento di condanna è commesso dal datore di lavoro, pubblico o privato, o si evince una sua complicità, il giudice dispone la pubblicazione della sentenza su almeno due quotidiani a tiratura nazionale, omettendo il nome della persona oggetto di mobbing. Le eventuali spese sono a carico del condannato.

Art. 6.

(Nullità degli atti o dei comportamenti di mobbing)

1. Gli atti o i comportamenti di mobbing accertati ai sensi delle procedure di cui all’articolo 4 sono nulli.

2. Sono, altresì, nulle le dimissioni presentate dal lavoratore vittima di atti o di comportamenti di mobbing.

Art. 7.

(Sanzioni penali)

1. In caso di azioni di mobbing di cui all’articolo 2, comma 1, lettere c), f), g) e h), e in tutti i casi in cui si determinano danni ai sensi dell’articolo 3, comma 4, che devono essere accertati dal giudice, si applicano le sanzioni previste dalle disposizioni di cui al comma 2 del presente articolo.

2. Dopo l’articolo 612-bis del codice penale è inserito il seguente:

«Art. 612-ter. – (Atti vessatori in ambito lavorativo) – Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni il datore di lavoro, il dirigente o il lavoratore che nel luogo o nell’ambito di lavoro, con condotte reiterate, compie atti, omissioni o comportamenti di vessazione o di persecuzione psicologica tali da compromettere la salute o la professionalità o la dignità del lavoratore.

La pena è aumentata se dal fatto deriva una malattia nel corpo o nella mente.

La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104.

Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. Si procede, tuttavia, di ufficio nelle ipotesi di cui ai commi secondo e terzo».

Art. 8.

(Misure di prevenzione e di vigilanza nei luoghi di lavoro)

1. Le amministrazioni dello Stato e i datori di lavoro pubblici e privati, d’intesa con le rappresentanze sindacali o con i consigli centrali, intermedi e di base dell’Esercito italiano, della Marina militare, dell’Aeronautica militare, dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza, adottano le seguenti misure volte a prevenire e a contrastare le azioni di mobbing:

a) iniziative periodiche di informazione dei dipendenti anche al fine di individuare immediatamente eventuali sintomi o condizioni di discriminazioni ai sensi dell’articolo 2;

b) organizzazione, ogni sei mesi, di corsi specifici di gestione delle relazioni interpersonali o del mobbing affidati a soggetti, anche esterni, in qualità di consulenti, muniti dell’abilitazione all’esercizio della professione di psicologo e di un’ampia e comprovata esperienza specifica nel settore della psicologia del lavoro;

c) accertamento di azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori, avvalendosi dei consulenti di cui alla lettera b);

d) corsi di prevenzione e di informazione sulle azioni di mobbing nei confronti dei lavoratori obbligatori e a carico del datore di lavoro per i dirigenti, per i medici competenti, per i responsabili della sicurezza aziendale, nonché per i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza;

e) risoluzione delle controversie tramite la stipulazione di appositi accordi transattivi o conciliativi;

f) denuncia alle autorità competenti.

2. Ciascuna azienda sanitaria locale del comune capoluogo di provincia istituisce, nell’ambito della propria organizzazione amministrativa, un centro di riferimento per il benessere organizzativo nei luoghi di lavoro, costituito da specialisti di salute mentale, anche interni alla medesima azienda sanitaria locale, quali:

a) un medico specialista in medicina del lavoro, con funzioni di coordinamento;

b) un esperto in test psicodiagnostici;

c) un esperto in psicologia del lavoro e delle organizzazioni;

d) un medico specialista in psichiatria;

e) uno psicoterapeuta.

3. Gli specialisti di cui al comma 2 provvedono:

a) all’accertamento dello stato di disagio psico-sociale o di malattia del lavoratore e all’eventuale indicazione del percorso terapeutico di sostegno, cura e riabilitazione;

b) all’individuazione delle eventuali misure di tutela da adottare da parte dei datori di lavoro nelle ipotesi di rilevati casi di disagio lavorativo.

4. Il centro di cui al comma 2 organizza una conferenza annuale per valutare i risultati del lavoro svolto e per individuare le opportune iniziative per la riduzione o l’eliminazione delle azioni di mobbing.

Gli ordini professionali come datori di lavoro.

Avendo già prestato consulenza a diversi ordini professionali sul tema, sintetizzo alcuni punti relativi al rapporto di lavoro con gli ordini professionali.

Gli ordini professionali sono a tutti gli effetti degli enti pubblici non economici.

Ciò significa che gli stessi, anche se di modeste dimensioni, applicano al personale la normativa prevista per gran parte degli enti pubblici che è contemplata nel Testo Unico del Pubblico Impiego DLGS 165/2001.

Le assunzioni

In primo luogo, come enti pubblici, gli ordini professionali debbono assumere per concorso o comunque tramite procedure selettive.

La norma in questione prevede che le assunzioni nell’ambito della pubblica amministrazione siano esse a termine sia a tempo indeterminato debbano avvenire per il tramite di una procedura selettiva (concorso) disciplinata dall’art. 35 del DLGS n. 165/2001.

Quindi, come nelle pubbliche amministrazioni, previa redazione del piano del fabbisogno di personale si dovrà redigere il concorso per l’assunzione del personale in pianta stabile.

Prima di procedere al bando di concorso si renderà necessario determinare l’organico dell’ordine medesimo definendo le qualifiche e le categorie contrattuali per poi inserirlo nel piano triennale del fabbisogno di personale

Il piano triennale del fabbisogno di personale è stato introdotto con il DLGS 75/2017 (decreto Madia) e comporta l’elaborazione di un piano di spesa ed assunzioni senza il quale non si potrà procedere a bandire alcun concorso.

La modalità concreta per la predisposizione di tale piano è contenuta nel decreto 8 maggio 2018 del Ministro per la Pubblica Amministrazione. (Allegato 1)

Dovranno inoltre aver luogo tutti gli adempimenti in termini di sicurezza e benessere previsti dal DLGS 81/2008.

Il personale sarà trattato ed inquadrato secondo il contratto del Comparto Enti Pubblici non Economici.

Nell’instaurare rapporti a termine o di natura flessibile o di consulenza, gli ordini professionali subiranno le limitazioni stabilite per il settore del pubblico impiego.

In particolare per gli incarichi professionali e le consulenze.

Particolari limitazione nel ricorso a consulenze sono imposte agli ordini professionali, come del resto alle amministrazioni pubbliche dall’articolo 7 del DLGS 165/2001

L’articolo 7 del DLGS 165/2001 fa divieto alle amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di collaborazione aventi ad oggetto prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative, le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed ai modi di lavoro.

Solo per specifiche esigenze cui le amministrazioni non possono far fronte con personale in servizio, esse possono conferire incarichi individuali con contratti di lavoro autonomo ad esperti di particolare e comprovata specializzazione. In tal caso, devono ricorrere i seguenti requisiti:

a) l’oggetto della prestazione deve corrispondere alle competenze attribuite dall’ordinamento all’amministrazione conferente, ad obiettivi e progetti specifici e determinati e deve risultare coerente con le esigenze di funzionalità dell’amministrazione conferente;

b) l’amministrazione deve avere preliminarmente accertato l’impossibilità oggettiva di utilizzare le risorse umane disponibili al suo interno;

c) la prestazione deve essere di natura temporanea e altamente qualificata; non è ammesso il rinnovo; l’eventuale proroga dell’incarico originario è consentita, in via eccezionale, al solo fine di completare il progetto e per ritardi non imputabili al collaboratore, ferma restando la misura del compenso pattuito in sede di affidamento dell’incarico; (43)

d) devono essere preventivamente determinati durata, oggetto e compenso della collaborazione.

Si prescinde dal requisito della comprovata specializzazione universitaria in caso di stipulazione di contratti di collaborazione per attività che debbano essere svolte da professionisti iscritti in ordini o albi o con soggetti che operino nel campo dell’arte, dello spettacolo, dei mestieri artigianali o dell’attività informatica nonché a supporto dell’attività didattica e di ricerca, per i servizi di orientamento, compreso il collocamento, e di certificazione dei contratti di lavoro di cui al decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, purché senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, ferma restando la necessità di accertare la maturata esperienza nel settore.

Inoltre le amministrazioni pubbliche disciplinano e rendono pubbliche, secondo i propri ordinamenti, procedure comparative per il conferimento degli incarichi di collaborazione.

Solo in casi del tutto eccezionali e sino alla soglia massima di euro 5.000.l’incarico può essere oggetto di affidamento diretto.

Il trattamento contrattuale per i dipendenti dagli ordini professionali sarà quello del Comparto Enti Pubblici Non Economici.

In tema di mansioni, agli ordini professionali troverà quindi piena applicazione l’articolo 52 DLGS 165/2001e quindi non sarà possibile la promozione alla categoria superiore per svolgimento di fatto delle mansioni superiori.

Inoltre il passaggio tra aree professionali sovraordinate, potrà avvenire esclusivamente mediante concorso.

In materia disciplinare troverà applicazione l’articolo 54 del DLGS 165/2001 che prevede la redazione di apposito codice di comportamento, l’articolo 54 bis che impone la tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti e l’articolo 55bis e seguenti che disciplinano il procedimento disciplinare.

Importante lo stesso articolo sopraindicato, laddove impone ad ogni ente pubblico la costituzione di apposito Ufficio per i Provvedimenti Disciplinari al Personale dipendente.

Eccezioni e particolarità.

Ulteriore novità in tema e data dall’entrata in vigore del DL 124/2019 convertito nella legge 19.12.2019.

All’articolo 50 della predetta normativa comma 3 bis è stabilito che gli ordini e collegi professionali, tenendo conto delle loro peculiarità dovranno attenersi ai soli principi generali del DLGS 165/2001, emanando un loro regolamento. E’ inoltre escluso l’obbligo per gli ordini professionali di attenersi in tema di valutazione della Performance e nomina degli Organismi Interni di Valutazione a quanto previsto dal DLGS 150/2009 (legge Brunetta).

In pratica, gli ordini professionali non debbono apprestare il complesso sistema di Valutazione della Performance ed istituire a questo scopo gli Organismi Indipendenti di Valutazione.

Il punto che costituisce un’ulteriore novità, consente per le questioni non fondamentali di applicare una normativa più snella dopo aver approvato un proprio regolamento.

Il regolamento potrebbe essere un utile filtro per semplificare e razionalizzare l’applicazione del Testo Unico sul Pubblico Impiego a Strutture spesso abbastanza semplici e garantite economicamente dai contributi degli iscritti.

24 maggio 2020

Avvocato Fabio Petracci

VIDEO – Labor network in streaming: la gestione dei rapporti di lavoro ai tempi del coronavirus.

Pubblichiamo il video del webinar organizzato da Labor network (www.labornetwork.it) il 15 aprile sulla gestione dei rapporti di lavoro ai tempi del coronavirus.

L’intervento del avv. Petracci in merito alla sicurezza sul lavoro nell’emergenza COVD-19 – CORONAVIRUS con particolare attenzione allo stress lavoro correlato e burn out delle categorie più a rischio inizia a 1h 44 min.

Pur nella specialità dell’emergenza epidemiologica la normativa a disposizione permette di affrontare la questione sicurezza sul lavoro se applicata con oculatezza e organizzazione.

Lo stress da lavoro di chi ha avuto paura del contagio magari in assenza di strumenti di protezione o anche di chi crede di non essere riuscito a far abbastanza per curare le persone può sfociare nel burn out e portare a danni paermanenti sopratutto con riguardo alle professioni che sono state in prima linea come i medici ed il personale che ha lavorato in terapia intensiva.

Nei confronti di queste categore o di chi non ha potuto esimersi dall’andare al lavoro ed ha affrontato il virus come per esempio le cassiere dei supermercati o il personale di polizia, si potrebbe pensare ad una attività legale per cercare di ottenere il giusto riconoscimento.

Furbetti del Cartellino, risarcimento del danno alla Pubblica Amministrazione.

Con la sentenza n.66/2020 pubblicata in data 16 aprile 2020, la Corte Costituzionale ha ritenuto l’incostituzionalità del comma 3 quater dell’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 laddove fissa un tetto minimo di sei mensilità per il risarcimento del danno all’immagine subito dalla pubblica amministrazione, allorquando il dipendente manometta o falsifichi le risultanze della sua presenza.

La Corte ha motivato il proprio intervento in quanto la norma che prevede un tanto è contenuta in un decreto legislativo (DLGS 116/2016 che modificava l’articolo 55 quater del DLGS 165/2001) cui la legge (Legge 124/2015) non aveva conferito una simile delega.

In pratica il governo di allora aveva legiferato in assenza di delega legislativa del parlamento. (articolo 76 della Costituzione).

Vedremo di esaminare sommariamente la questione.

L’articolo 55 quater del DLGS 165/2001 in tema di licenziamento disciplinare nell’ambito della pubblica amministrazione, tocca la responsabilità contabile – amministrativa del dipendente pubblico volta ad alterare i rilievi di presenza in servizio.

Esso al comma 3 – quater prevede espressamente che, l’azione disciplinare debba accompagnarsi alla segnalazione obbligatoria del fatto al pubblico ministero per l’esercizio dell’azione penale ed all’analogo organo presso la procura della Corte dei Conti per l’esercizio dell’azione di responsabilità amministrativa e contabile, stabilendo che, ferme le valutazioni del giudice in merito all’entità del danno, esso mai potrà essere inferiore a sei mesi dell’ultimo stipendio in godimento.

La norma così strutturata era stata introdotta mediante il DLGS 20.6.2016 n.116 che, modificava il precedente articolo 55 quater del DLGS 165/2001 introducendo questa fattispecie di danno all’immagine che non aveva bisogno di prova alcuna. ( una sorta di danno minimo ed incontestabile).

Il decreto legislativo 116/2016 era emesso su delega della legge 124/2015 che all’articolo 17, punto s) testualmente prevedeva la delega al governo per l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare.

Nulla però era detto dalla legge 124/2015 (legge Madia) in tema di responsabilità contabile – amministrativa.

Fabio Petracci.

CORONAVIRUS – COVID 19. Rischi penali del datore di lavoro.

E’ insistente ed attuale la polemica che paventa una responsabilità penale del datore di lavoro, qualora il dipendente contragga sul posto di lavoro il contagio da COVID-19.

Alla base della discussione, troviamo l’articolo 42 comma 2 del DL 18/2020 che introduce questa particolare forma di contagio tra gli infortuni sul lavoro coperti dall’assicurazione INAIL.

La definizione di infortunio sul lavoro che ne dà la legge non rispetta la tradizionale differenza tra infortunio sul lavoro e malattia professionale.

Si ritiene infatti nell’ambito della medicina legale come l’infortunio sul lavoro sia un evento traumatico e repentino che causa un problema di salute al lavoratore, nel mentre la malattia professionale consiste in una patologia connessa alle condizioni di lavoro.

Nel caso di specie, le condizioni di lavoro sono date dal contatto con il virus determinato dalla tipologia del lavoro.

Possiamo avere un contatto tipico e specifico, come nel caso del personale sanitario di qualsiasi qualifica e specie e del personale di soccorso e controllo delle disposizioni sanitarie, come pure un’esposizione che potremmo definire generica di chi è costretto a lavorare con il pubblico nell’ambito di una pandemia.

La malattia può avere una durata relativamente breve e comportare la definitiva guarigione, può comportare delle conseguenze talora permanenti o l’esito infausto del decesso.

La particolarità della pandemia.

Le cause e le circostanze materiali che determinano il contagio sono solo parzialmente acclarate, come pure i mezzi ed i dispositivi per prevenire il contagio.

Infortunio o più propriamente malattia contratta nell’ambito della prestazione, all’INAIL compete il relativo trattamento che può essere il pagamento delle giornate di assenza e le relative cure, come pure il risarcimento di danni permanenti o addirittura il danno e l’indennizzo  da decesso.

La responsabilità civile del datore di lavoro.

Accanto all’INAIL sussiste pur sempre la responsabilità del datore di lavoro per il danno differenziale e gli ulteriori pregiudizi alla salute, oltre ai danni di natura non patrimoniale.

Sino a qui anche se abbiamo citato una norma di legge che prima non c’era e legata all’emergenza, la situazione appare normale.

Si pone invece la difficoltà interpretativa e l’originalità della stessa di fronte ad uno scenario scientifico e di prevenzione in piena evoluzione e denso ancora di incertezze.

Quindi se i virologi non sono ancora in grado unanimemente di consigliarci senza ombra di dubbio l’uso della mascherina, al datore di lavoro ed intendiamo qui il datore di lavoro onesto e diligente, è affidato il compito più gravoso di individuare cause e mezzi protettivi, laddove i dubbi non sono ancora chiariti.

In primo luogo, incombe sul datore di lavoro una responsabilità civile come parte contrattuale.

Egli, in base all’articolo 2087 del codice civile è obbligato a garantire ai propri prestatori di lavoro, il massimo possibile della sicurezza.

Essendo il rapporto di lavoro a tutti gli effetti un contratto, egli deve garantire tale adempimento e provare, qualora citato in causa, di aver fatto tutto il possibile per adempiere a tale obbligo.

In caso contrario, non ci sarà sanzione alcuna in senso tecnico, ma esclusivamente il risarcimento di danni anche cospicui.

La responsabilità penale del datore di lavoro.

Scatta comunque anche la responsabilità penale per lesioni o morte sul lavoro.

Quivi normalmente la responsabilità è dovuta a colpa.

La colpa consiste allorquando si accerti la sua negligenza, imprudenza, inosservanza di leggi e regolamenti, ordine e discipline.

In entrambi i casi sia di responsabilità civile che penale è necessario che la fattispecie di danno possa essere fatta risalire alla condotta accertata attraverso il cosiddetto nesso causale che lega l’evento al rapporto di lavoro.

A differenza della responsabilità civile, la responsabilità penale è esclusivamente personale (articolo 29 Costituzione).

Ciò significa che ne risponde soltanto di persona chi incaricato o delegato di assicurare tutte le cautele imposte.

La responsabilità civile, a differenza di quella penale, poggia su di una norma generale data dall’articolo 2097 del codice civile che non impone soltanto il rispetto di tutte le norme vigenti in materia, ma che come norma di chiusura generale impone al datore di lavoro anche la ricerca e la definizione di ogni cautela nominata ed innominata al fine di garantire salute e benessere ai propri dipendenti.

Su tale base una volta affermata la responsabilità civile del datore di lavoro, la responsabilità penale dovrà conseguire esclusivamente al mancato rispetto di norme a ciò delegate.

In una situazione del tutto inusuale ed anomala, dove la scienza non è ancora in grado di dettare i suoi principi al legislatore, l’ipotesi di responsabilità penale, fatto salvo il caso di violazione delle norme vigenti e l’accertamento del contagio in ambito lavorativo, prova che compete al lavoratore, la responsabilità penale appare abbastanza remota.

Il nesso causale, il contagio deve essere stato contratto sul posto di lavoro o in occasione di lavoro.

Altrettanto difficile sarà per il lavoratore dimostrare di aver contratto il virus sul posto di lavoro.

Egli dovrebbe disporre di una tracciabilità dei contatti, oppure dovrebbe ricorrere ad elementi presuntivi atti a dimostrare la contagiosità del posto di lavoro, come ad esempio l’alta percentuale di contagi in una determinata unità produttiva.

Qualche possibile soluzione.

Un’altra via da percorrere per avere da una parte certezza e dall’altra un incentivo a rispettare le regole, potrebbe essere rinvenibile sulla scorta del “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro”.

Non va dimenticato che al fine di garantire l’effettivo rispetto della normativa concordata da sindacati e datori di lavoro al punto 13 è prevista l’esistenza di un apposito Comitato Aziendale per applicare e verificare le regole del protocollo con la partecipazione delle rappresentanze sindacali aziendali e degli RLS.

Per una maggior certezza, si potrebbe affidare a questi organismi un’apposita attività di certificazione che metta al riparo gli imprenditori seri da rischi penali.

Annullare del tutto l’ipotesi penale potrebbe rappresentare un incentivo al mancato rispetto delle regole.

Fabio Petracci.